Aenea e io aspettammo che riprendesse a parlare. Guardavo con una certa ansia, lo ammetto, la pattuglia di agenti della sicurezza della Pax, in tuta corazzata nera, che si muoveva verso di noi lungo il viale.
«So come possiamo entrare nel Vaticano» disse padre de Soya. Si girò verso una viuzza dall’altra parte del viale.
«Bene» disse Aenea e si affrettò a seguirlo.
Il gesuita si fermò di colpo. «Penso che riusciremo a entrare» disse «ma non ho la minima idea di come faremo a uscire.»
«Cominciamo a entrare» disse Aenea.
La porta era sul retro di una cappella di pietra in rovina, priva di finestre, a tre isolati dal Vaticano. Era d’acciaio, chiusa con un piccolo lucchetto e una grossa catena. Il cartello sulla porta diceva:
«Riesce a spezzare quella catena?» mi domandò padre de Soya.
Tastai la grossa catena e il robusto lucchetto. Come unico utensile, o arma, avevo il coltello da caccia nel fodero alla cintura. «No» risposi. «Ma forse posso forzare il lucchetto. Guardate se riuscite a trovare un pezzo di fil di ferro in quel cassonetto per la spazzatura, il fil di ferro da imballaggio andrebbe bene.»
Restammo lì sotto la pioggerella per almeno dieci minuti, mentre la luce diminuiva e il rumore di traffico nei vicini viali pareva aumentare, aspettandoci che da un momento all’altro le guardie svizzere o gli agenti della sicurezza piombassero su di noi. Tutte le mie conoscenze sull’arte di forzare lucchetti provenivano da un vecchio giocatore d’azzardo sui battelli fluviali del Kans, che si era dato al gioco dopo che le autorità di Port Romance gli avevano mozzato due dita per furto. Mentre mi davo da fare, pensai ai nostri dieci anni di traversie, al lungo viaggio di padre de Soya per arrivare lì, alle centinaia di anni luce percorsi e alle decine di migliaia di ore di tensione e di sofferenza, di sacrificio e di terrore.
E quel fottuto lucchetto da dieci fiorini non faceva una piega!
Alla fine la punta del coltello si spezzò. Imprecai, gettai via il coltello e sbattei contro il muro di pietra quel puzzolente pidocchioso pezzo di merda di lucchetto con tutta la sua catena. Il lucchetto scattò e si aprì.
L’interno della cappella era buio. Se c’era un interruttore, non riuscimmo a trovarlo. Se da qualche parte c’era una stupida IA per il controllo delle luci, non rispose ai nostri ordini. Nessuno di noi aveva una torcia. Dopo averla portata con me per anni, proprio quel giorno avevo lasciato nello zaino la torcialaser. Giunto il momento di lasciare la Yggdrasill, avevo preso la mano di Aenea, senza un pensiero ad armi o ad altri oggetti necessari.
«Questa è San Giovanni in Laterano?» domandò sottovoce Aenea. L’opprimente oscurità induceva a parlare solo a bisbigli.
«No, no» rispose padre de Soya. «È solo una piccola cappella commemorativa, costruita accanto alla basilica nel XXI…» Si interruppe e immaginai benissimo che gli fosse tornata l’espressione pensierosa di prima. «Però è ancora utilizzata, credo. Aspettate qui.»
Aenea e io restammo a contatto di spalla, mentre padre de Soya si muoveva per il piccolo edificio. Sentimmo cadere qualcosa di pesante, con rumore di ferro su pietra, e trattenemmo il fiato. Un minuto più tardi udimmo il rumore delle mani di de Soya che scivolavano di nuovo lungo la parete e il fruscio della tonaca. Ci fu un: «Ahhh…» soffocato e dopo un istante balenò una luce.
Il gesuita, a meno di dieci metri da noi, teneva fra le dita un fiammifero acceso. Nella sinistra aveva una scatola di fiammiferi. «Le cappelle» spiegò «hanno ancora il banchetto per le candele votive.» Ora vedevo che le candele erano consumate fino al moccolo e non erano state sostituite, ma i ceri e quell’unica scatola di fiammiferi erano rimasti per Dio sa quanto tempo in quel luogo buio e abbandonato. Ci unimmo a de Soya nel piccolo cerchio di luce, aspettammo che il prete accendesse un altro fiammifero e andammo a una porta di legno massiccio posta dietro una tenda che cadeva a pezzi.
«Padre Baggio, il mio cappellano di risurrezione, mi parlò di questo giro turistico, quando ero agli arresti domiciliari qui vicino, alcuni anni fa» bisbigliò padre de Soya. La porta non era chiusa, ma si aprì con un cigolio di vecchi cardini arrugginiti. «Forse» continuò il prete «padre Baggio credeva che la visita solleticasse il mio senso del macabro.» Ci guidò per una stretta scala a chiocciola di pietra, non più larga delle mie spalle. Aenea seguiva il prete. Io mi tenni vicino a Aenea.
La scala a chiocciola continuò a scendere, scese ancora, scese ancora un poco. Quando terminò, stimai che eravamo almeno venti metri sotto il livello stradale. Percorremmo una serie di stretti corridoi e sbucammo in uno più ampio, saturo d’echi. A quel punto de Soya aveva già consumato una decina di fiammiferi, spegnendoli solo quando si scottava le dita. Non gli domandai quanti ne rimanessero nella scatola.
«Durante l’Egira, la Chiesa decise di spostare San Pietro e il Vaticano» disse de Soya, con voce ora abbastanza forte «e li portò en masse su Pacem, usando pesanti sollevatori e torri a campo trattore. Poiché la massa non era un problema, portò con sé mezza Roma, compreso l’enorme Castel Sant’Angelo e tutto ciò che c’era fino a sessanta metri sotto la città. Questa era la metropolitana del XX secolo.»
Cominciò a percorrere una banchina ferroviaria abbandonata. In certi punti le piastrelle del soffitto si erano staccate; dappertutto, tranne in uno stretto passaggio, c’erano secoli di polvere, pietre cadute, rottami di plastica, cartelli illeggibili gettati fra la sporcizia, panchine a pezzi. Scendemmo varie scalette di ferro arrugginito; gli ascensori, mi resi conto, si erano fermati più di mille anni prima; percorremmo uno stretto corridoio che continuava giù per una rampa e salimmo su un’altra banchina. Al termine della banchina, una scaletta di fibroplastica portava giù dove c’erano stati i binari, dove c’erano ancora i binari, sotto strati di polvere, macerie e ruggine.
Appena scesa la scaletta e imboccato il tunnel della metropolitana, il fiammifero si spense. Ma non prima che Aenea e io avessimo visto che cosa c’era più avanti.
Ossa. Ossa umane. Ossa e teschi impilati per bene fino a due metri di altezza ai lati dello stretto passaggio fra i binari arrugginiti. Grandi mucchi di ossa sistemate di piatto, crani accuratamente disposti a intervalli di un metro o in modo da formare disegni geometrici entro le scabre pareti di ossa umane.
Padre de Soya accese un altro fiammifero e si avviò fra le macabre muraglie. Il lieve spostamento d’aria del suo passaggio fece tremolare la fiammella tenuta in alto.
«Dopo la guerra delle Sette Nazioni, nei primi anni del XXI secolo» disse de Soya, parlando ora in tono normale «i cimiteri di Roma erano stracolmi. Nelle zone periferiche della città e nei parchi più grandi erano state scavate fosse comuni. Divenne un serio problema sanitario, per l’aumento globale della temperatura e le continue alluvioni. Tutte le testate biologiche e chimiche, capite. Le ferrovie sotterranee erano state abbandonate da tempo, così le autorità costituite autorizzarono il trasferimento dei resti e la loro sepoltura nei vecchi tunnel della metropolitana.»
Stavolta, quando il fiammifero si spense, ci trovavamo in una sezione dove le ossa erano impilate su cinque piani, ognuno segnato da una fila di teschi, bianche fronti che riflettevano la luce, ma orbite vuote che restavano indifferenti al nostro passaggio. Le ordinate pareti di ossa avevano una profondità di almeno sei metri e si alzavano fino al soffitto a volta, dieci metri sopra di noi. In alcuni punti c’erano state piccole valanghe di ossa e di teschi; fummo costretti a scavalcarle con cautela. Ma non potemmo eliminare lo scricchiolio sotto i piedi. Nei momenti di buio tra un fiammifero e l’altro, restavamo immobili e aspettavamo in silenzio. Non c’erano altri rumori, né zampettio di topi né sgocciolio d’acqua. Solo il nostro respiro e le nostre parole turbavano il silenzio.