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Guardammo in silenzio il mucchietto di ossa e poi di nuovo il gesuita.

«Federico» disse Aenea «sa bene che non voglio abbattere la Chiesa. Solo questa sua attuale aberrazione.»

«Sì, certo» disse padre de Soya. Si asciugò alla meglio gli occhi e lasciò sulle guance tracce di terriccio. «Lo so, Aenea.» Si guardò intorno, andò a una porta, la aprì. Una scala metallica portava in alto.

«Ci saranno delle guardie» bisbigliai.

«Non credo» disse Aenea. «Il Vaticano è vissuto ottocento anni nella paura di attacchi dallo spazio, dall’alto. Non credo che badi troppo alle catacombe.» Passò davanti a de Soya e salì rapidamente ma senza rumore i gradini metallici. Mi affrettai a seguirla. Padre de Soya lanciò un’occhiata alla nicchia buia, si fece un ultimo segno di croce e ci seguì verso San Pietro.

Dopo le catacombe, la luce nella basilica principale, pur attenuata dalla sera, dai vetri colorati e dalle candele accese, quasi ci abbagliò.

Avevamo risalito il sacrario sotterraneo, passando per un’antica basilica commemorativa romana segnata nella pietra come Trofeo di Gaio, attraversando corridoi laterali e ingressi di servizio, poi passando per l’anticamera della sacrestia, davanti a preti in piedi e chierichetti a testa china, ed eravamo usciti nel retro dell’ampia ed echeggiante navata di San Pietro. Lì c’erano decine di dignitari non tanto importanti da avere un posto nei banchi e tuttavia meritevoli dell’onore di stare in piedi in fondo alla basilica per assistere all’importante cerimonia. Bastò una sola occhiata per vedere che c’erano guardie svizzere e agenti della sicurezza davanti a tutte le entrate della basilica e in tutte le stanze esterne con uscita. Lì, in fondo alla folla di fedeli, per il momento non davamo nell’occhio: eravamo solo uno dei tanti preti con due parrocchiani vestiti non proprio da festa, cui era stato permesso di allungare il collo per vedere il Santo Padre il giovedì santo.

La messa non era terminata. L’aria odorava d’incenso e di cera. Centinaia di vescovi e di personaggi importanti riempivano le file di lucidi banchi. Alla balaustra marmorea dell’altare davanti allo splendido baldacchino barocco del trono di San Pietro, il Santo Padre in ginocchio terminava l’umile compito di lavare i piedi a dodici preti seduti, otto uomini e quattro donne. Fuori vista, un numeroso coro cantava:

O Santo Spirito, tramite te solo

noi conosciamo il Padre e il Figlio;

sia questo il nostro fermo immutabile credo,

che tu da tutt’e due procedi.

Che tu da tutt’e due procedi.

Sia lodato il Signore, Padre e Figlio

e Spirito Santo con loro in Uno;

e possa il Figlio concederci

tutti i doni che dallo Spirito fluiscono.

Tutti i doni che dallo Spirito fluiscono.

Allora esitai, mi domandai cosa ci facevamo lì, perché la battaglia senza fine di Aenea ci aveva portato al centro della fede di quelle persone. Credevo in tutto ciò che Aenea ci aveva insegnato, tenevo in gran conto qualsiasi cosa lei avesse condiviso con noi, ma tremila anni di tradizione e di fede avevano creato le parole di quel bellissimo canto e avevano costruito le pareti di quella maestosa cattedrale. Non potei fare a meno di ricordare le semplici piattaforme di legno, i solidi ma poco eleganti ponti e le scale del Tempio a mezz’aria ricostruito da Aenea. Cos’era, quel tempio, cos’eravamo noi, a paragone di quello splendore e di quella umiltà? Aenea era un architetto, in gran parte autodidatta, se si escludevano gli anni dell’adolescenza alla scuola del cìbrido Wright trascorsi a costruire muri di pietra usando sassi del deserto e mescolando a mano il cemento. Al progetto di quella basilica aveva collaborato Michelangelo!

La messa era alla fine. Varie persone fra quelle in piedi in fondo alla navata longitudinale cominciavano a uscire, camminando nel massimo silenzio per non disturbare col rumore di passi la fine della cerimonia, bisbigliando solo quando avevano raggiunto la scalinata esterna che portava alla piazza. Notai che Aenea mormorava all’orecchio di padre de Soya e mi sporsi verso di loro per sentire: non volevo perdermi qualche istruzione d’importanza vitale.

«Mi renderà un ultimo grande favore, padre?» domandò Aenea.

«Qualsiasi cosa desideri» rispose il prete.

«Per favore, lasci adesso la basilica. Per favore, se ne vada ora, con gli altri. Ci lasci ora e si confonda fra la gente di Roma finché non verrà il giorno di ricomparire.»

Padre de Soya tirò indietro la testa, inorridito; guardò Aenea, da mezzo metro, con l’espressione di chi è stato abbandonato. Poi si chinò verso di lei. «Qualsiasi altra cosa, maestra.»

«Chiedo solo questo, padre. E lo chiedo con amore e rispetto.»

Il coro iniziò un altro inno. Sopra il mare di teste davanti a me, il Santo Padre terminò la lavanda dei piedi e tornò all’altare sotto il baldacchino dorato. Nei banchi tutti si alzarono in attesa delle litanie conclusive e della benedizione finale.

Padre de Soya benedisse Aenea, si girò e lasciò la basilica insieme con un gruppo di frati che uscivano fra un tintinnio di rosari.

Fissai Aenea con intensità sufficiente a incendiare il legno, nel tentativo di inviarle un messaggio mentale:

"Non chiedere a me di andare via!"

Aenea mi chiamò con un gesto e mi mormorò all’orecchio: «Fai per me un’ultima cosa, Raul, amore mio».

"No, maledizione!" fui sul punto di gridare a pieni polmoni nella navata di San Pietro durante il più sacro momento della messa solenne del giovedì santo. Invece aspettai in silenzio.

Aenea si frugò nelle tasche e mi porse una fialetta, il cui contenuto era un liquido chiaro che pareva più denso dell’acqua. «Ti dispiace berlo?» mi bisbigliò e mi tese la fiala.

Pensai a Romeo e Giulietta, a Cesare e Cleopatra, ad Abelardo ed Eloisa, a George Wu e a Howard Sung. Tutti amanti sfortunati. Suicidio e veleno. Trangugiai in un solo sorso la pozione, misi nel taschino della camicia la fiala vuota e aspettai che Aenea tirasse fuori la sua fiala e bevesse un analogo veleno. Aenea non fece niente del genere.

«Cos’era?» domandai, senza nessun timore.

Aenea seguiva i momenti finali della messa. Si sporse molto vicino per bisbigliarmi: «Un antidoto alla medicina per il controllo delle nascite che la Pax ti ha dato quando sei entrato nella Guardia nazionale».

"Ma che diavolo!" fui sul punto di gridare, mentre il Santo Padre pronunciava le parole conclusive della messa. "Proprio ora ti preoccupi di pianificazione familiare? Sei andata fuori di testa, maledizione?"

Aenea si sporse di nuovo, il suo alito caldo sul mio collo, e mormorò: «Grazie a Dio! Ce l’ho in tasca da due giorni e ancora un po’ me ne dimenticavo! Non preoccuparti, l’antidoto impiegherà circa tre settimane a fare effetto. Poi non ti accadrà più di sparare a salve».

La fissai, sorpreso. Era una bestemmia nella basilica di San Pietro o solo un insolito cattivo gusto? Poi ingranai la quinta mentale: "È una notizia meravigliosa: qualsiasi cosa accada, Aenea vede un futuro per noi, per se stessa, vuole avere un figlio da me. Ma quel suo primo figlio? E perché presumo che desideri… perché dovrebbe… forse è la sua idea di un regalo d’addio… perché dovrebbe… perché…".

«Baciami, Raul» mormorò, a voce abbastanza alta da far girare, con espressione severa, l’anziana suora davanti a noi.

Non le posi domande. La baciai. Le sue labbra erano morbide e umide, proprio come la prima volta che ci eravamo baciati sulla riva del Mississippi, in un posto chiamato Hannibal. Il bacio parve durare un tempo lunghissimo. Prima che le nostre labbra si staccassero, Aenea mi tocco la nuca: aveva le dita fredde.