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Non ero con lei.

Non ero con lei.

Oh, Dio Gesù, Dio di Mosè, Allah, Buddha, Zeus, Muir, Elvis, Cristo, se uno di voi esiste o è mai esistito o serba nelle sue mani grigie e morte un brandello di potere, ti prego, lasciami morire ora. Adesso. Lascia che l’apparecchiatura rilevi la particella e liberi il gas. Adesso.

Non ero con lei.

31

Vi ho mentito.

Ho detto all’inizio di questa narrazione che non ero con Aenea, quando si compì il suo destino, lasciando intendere che non lo conoscessi, e ho ripetuto le stesse parole, alcuni periodi di sonno fa, quando ho scritto sul grafer quella che ero sicuro fosse l’ultima puntata di questo racconto.

Ma, come direbbero i preti della Chiesa, ho mentito per omissione.

Ho mentito perché non volevo parlarne, non volevo descriverlo, non volevo riviverlo, non volevo crederci. Ma ora so di dover fare tutte queste cose. L’ho rivissuto ogni ora della mia prigionia in questa cella a scatola di Schrödinger. Ci ho creduto dal momento in cui condivisi l’esperienza della mia cara amica, della mia cara Aenea.

Seppi, prima che mi spedissero via dal sistema di Pacem, qual era stato il destino della mia amata. Avendolo conosciuto e rivissuto, ho il dovere, per verità di cronaca e in memoria del nostro amore, di parlarne e di descriverlo.

La partecipazione al suo destino mi giunse mentre ero drogato e docile, imbrigliato in un serbatoio ad alta gravità a bordo della navetta automatica, un’ora dopo il mio processo di dieci minuti di fronte all’Inquisizione in una base della Pax, un asteroide a dieci minuti luce da Pacem. Seppi, non appena le udii e le sentii e le vidi, che queste cose erano reali, che accadevano nel momento in cui le condividevo e che solo la mia intimità con Aenea e il mio lento progresso dell’apprendere il linguaggio dei vivi mi aveva permesso una partecipazione così intensa. Quando si concluse, iniziai a urlare nel mio serbatoio ad alta gravità, strappai i tubicini del supporto vita, battei i pugni e la testa contro la paratia, finché nell’acqua che riempiva il serbatoio non turbinarono rivoli del mio sangue. Cercai di strapparmi la maschera osmotica che mi copriva il viso come un parassita che mi succhiasse il fiato; non si strappò. Per tre ore buone urlai e protestai, mi ridussi in uno stato di semicoscienza a furia di urtare le pareti, rivissi mille volte i momenti condivisi con Aenea e mille volte urlai di atroce sofferenza; poi la nave automatica mi iniettò sonniferi dai tubicini simili a sanguisughe, il serbatoio si prosciugò e passai in crio-fuga, mentre la nave raggiungeva il punto di traslazione per il balzo al non lontano sistema di Armaghast.

Mi svegliai nella scatola di Schrödinger. La nave automatica mi aveva caricato nel satellite di energia fusa e l’aveva messo in orbita senza intervento d’uomo. Per alcuni attimi rimasi disorientato, credendo che i momenti condivisi con Aenea fossero stati solo incubi. Poi mi resi conto della realtà di quei momenti e cominciai a urlare di nuovo. Credo d’avere trascorso vari mesi, prima di ritrovare il senno.

Ecco ciò che scrissi nella mia follia.

Anche Aenea, sanguinante e priva di conoscenza, era stata portata via da San Pietro, ma a differenza di me si svegliò il giorno seguente, né drogata né collegata a macchinari. Riprese conoscenza — e condivisi quel risveglio più chiaramente di quanto non abbia memoria del mio, preciso e reale come una seconda serie di impressioni sensoriali — in una enorme stanza di pietra, rotonda, del diametro di una trentina di metri, col soffitto a cinquanta metri dal pavimento. Nel soffitto c’era un luminoso vetro smerigliato che dava l’impressione di un lucernario, ma Aenea sospettava che fosse una illusione e che la stanza si trovasse nel cuore di un edificio molto più grande.

Mentre ero privo di conoscenza, gli infermieri mi avevano ripulito per quei dieci minuti di processo. Nessuno invece aveva toccato le ferite di Aenea: il lato sinistro del viso le doleva ancora, gonfio di lividi; lei era nuda, perché le avevano strappato i vestiti; aveva le labbra tumefatte, l’occhio sinistro quasi chiuso, riusciva a dischiuderlo solo a fatica e dall’occhio destro aveva la vista confusa per la commozione cerebrale, tagli e graffi sul petto, sulle cosce, sulle braccia, sul ventre. Alcuni tagli erano incrostati di sangue, ma alcuni erano tanto profondi da richiedere punti di sutura che nessuno si era preoccupato di applicare. Sanguinavano ancora.

Aenea era legata con cinghie a quella che pareva un’ossatura di ferro arrugginito a sbarre incrociate, appesa con catene all’alto soffitto, che le consentiva di appoggiarsi con la schiena per non sopportare del tutto il proprio peso, ma che la teneva praticamente in piedi, braccia basse sulle sbarre arrugginite, i polsi e le caviglie dolorosamente bloccati in morse imbullonate all’intelaiatura: un asterisco quasi verticale di gelido metallo sospeso a mezz’aria. I piedi pendevano a dieci centimetri da una grata infissa nel pavimento. Aenea poteva muovere la testa. La stanza rotonda era vuota, a parte quel marchingegno e due altri oggetti. Un largo cestino per rifiuti, posto alla destra di una sedia. Nel cestino c’era un sacchetto di plastica. Accanto al braccio destro dell’asterisco c’era anche un arrugginito vassoio metallico sul quale si trovavano vari strumenti: antiche tenaglie da dentista, lame circolari, bisturi, seghe per ossa, una sorta di lungo forcipe, pezzi di filo con barbigli a intervalli di tre centimetri, cesoie dalle lame lunghe, cesoie dalle lame più corte e dentellate, boccette di liquido scuro, tubetti di pomata, aghi, filo grosso, un martello. Ancora più impressionante era la grata rotonda del diametro di due metri e mezzo, posta sotto Aenea, dalla quale emergevano minuscole lingue di fiamma azzurrina ardenti come luci pilota. Nell’aria aleggiava un debole puzzo di gas naturale.

Aenea provò la consistenza delle morse, non cedettero minimamente, sentì pulsare polsi e caviglie per il tentativo, tornò ad appoggiare la testa contro la sbarra di ferro e aspettò. Aveva i capelli arruffati nel punto d’appoggio, sentiva un grosso bernoccolo nella parte alta della testa e un altro alla base del cranio. Fu assalita dalla nausea e si concentrò per non vomitarsi addosso.

Dopo alcuni minuti si aprì una porta nascosta nella parete di pietra; Rhadamanth Nemes entrò nella stanza e si fermò quasi a ridosso della grata, sulla destra di Aenea. Entrò una seconda Rhadamanth Nemes e prese posto alla sinistra di Aenea. Entrarono altre due Nemes e si sistemarono un poco più indietro. Le Nemes rimasero in silenzio. Aenea rimase in silenzio.

Qualche minuto più tardi, comparve in un baluginio il cardinale John Domenico Mustafa; la sua immagine olografica a grandezza naturale si consolidò proprio di fronte a Aenea. L’illusione della presenza fisica era perfetta, a parte il fatto che il cardinale era seduto e la sedia non era rappresentata nell’ologramma, e perciò sembrava fosse seduto sul nulla. John Domenico Mustafa pareva più giovane e più in forma di quanto non fosse stato su T’ien Shan. Pochi istanti dopo, fu raggiunto dall’ologramma di un cardinale molto più massiccio, in tonaca rossa, e poi da quello di un magrissimo prete d’aspetto tubercolotico. Dopo un altro istante, un uomo alto e bello, tutto vestito di grigio, varcò la porta materiale nella parete materiale della segreta e si unì agli ologrammi. Mustafa e gli altri cardinali continuarono a stare seduti su invisibili poltrone, mentre l’ologramma del monsignore e l’uomo in grigio presente in concreto rimasero in piedi dietro le sedie, come dei servitori.

«Signora Aenea» esordì il Grande Inquisitore «mi consenta di presentarle sua eminenza il segretario di Stato del Vaticano cardinale Lourdusamy, il suo aiutante monsignor Luca Oddi e il nostro stimato consigliere Albedo.»

«Dove sono?» disse Aenea. Fu costretta a ripetere la frase due volte, a causa delle labbra gonfie e della guancia ferita.