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Dove sarei andato? Galleggiavo nella luce, mi teleportavo liberamente nell’universo, con stilo e grafer sotto il braccio, ed ero indeciso.

Hyperion? Avevo promesso di tornare da Martin Sileno. Potevo sentire la sua voce risonare con forza nel Vuoto, passato e presente; ma quella voce non avrebbe fatto parte del coro ancora a lungo. La vita che gli restava ormai poteva essere contata in giorni o meno. Ma non sarei andato su Hyperion. Non ancora.

La biosfera Albero Stella? Ero sorpreso di udire che ancora esisteva in qualche forma, anche se la voce di Lhomo mancava dalla sua corale sinfonia. L’Albero Stella era stato importante per Aenea e per me; un giorno ci sarei dovuto tornare. Ma non ora.

La Vecchia Terra? Sorpreso, udii con assoluta chiarezza la musica di quella sfera, nella voce di Aenea e nella mia, nel canto degli amici con cui eravamo stati in armonia a Taliesin. La distanza non significava niente, nel Vuoto che lega. Lì il tempo faceva invecchiare, ma non distruggeva. Però non sarei andato sulla Vecchia Terra. Non ora.

Udii decine di possibilità, decine di voci che volevo ascoltare di persona, persone da abbracciare e con cui piangere, ma la musica a cui ora reagii più intensamente era quella del mondo dove Aenea era stata torturata e uccisa. Pacem. Sede della Chiesa e covo dei nostri nemici. Due cose, capivo ora, diverse. Su Pacem non c’era niente di Aenea per me, tranne ceneri del passato.

Ma Aenea mi aveva chiesto di portare sulla Vecchia Terra le sue ceneri e di spargerle laggiù. Spargerle dove avevamo più riso e amato.

Pacem. Nel vortice d’energia del Vuoto, fuori dalla cella/scatola di Schrödinger, ma senza esistere in nessun luogo, se non come pura probabilità quantica, presi la decisione e mi teleportai su Pacem.

33

Il Vaticano è in rovina, come se vi fosse calato dal cielo il pugno di Dio in preda a una collera trascendente la comprensione umana. L’infinita città burocratica intorno al Vaticano è fatta a pezzi. Lo spazioporto è distrutto. I grandi viali sono scorificati e fusi e orlati di detriti. L’obelisco egiziano che un tempo si trovava al centro di piazza San Pietro è stato spezzato alla base, le decine e decine di colonne intorno allo spazio ovale della piazza sono crollate come tronchi di pietra. La cupola di San Pietro è distrutta, precipitata attraverso la loggia centrale e la grandiosa facciata, e giace in macerie sugli scalini infranti. Le mura del Vaticano sono crollate in centinaia di punti, mancano completamente per lunghi tratti. Gli edifici un tempo protetti fra quei medievali confini — il Palazzo apostolico, gli archivi segreti, le caserme delle guardie svizzere, l’ospizio di Santa Madre Teresa, gli appartamenti papali, la Cappella Sistina — sono tutti allo scoperto, schiacciati, bruciati, abbattuti, sparpagliati.

Castel Sant’Angelo da questa parte del fiume è stato scorificato. Il torreggiante cilindro, venti metri di pietra che si alzavano dalla gigantesca base quadrata, è fuso e ridotto a una montagnola di lava rappresa.

Vedo tutto questo mentre cammino lungo il viale di lastre in frantumi sul lato orientale del fiume. Davanti a me, il ponte Sant’Angelo è spezzato in tre tronconi e precipitato nel fiume. Nel letto del fiume, dovrei dire, perché pare che il Nuovo Tevere sia evaporato, lasciando vetro dove un tempo c’erano il fondo sabbioso e le rive. Qualcuno ha allestito alla buona un ponte di corde sul varco sommerso di detriti fra le rive.

È Pacem, non ho alcun dubbio. L’atmosfera sottile e fredda dà la stessa sensazione che dava quando padre de Soya, Aenea e io siamo stati lì, il giorno prima che la mia amata morisse, anche se allora pioveva e il cielo era grigio, mentre ora risplende in un tramonto che riesce a far sembrare belle perfino le macerie della cupola di San Pietro.

Camminare libero sotto il cielo aperto, dopo gli incalcolabili mesi di ermetica prigionia, è quasi soffocante. Tengo stretto a me il grafer come uno scudo, come un talismano, una Bibbia, e percorro, malfermo sulle gambe, il viale un tempo grandioso. Per mesi la mia mente ha condiviso ricordi di molti luoghi e di molte persone, ma gli occhi, i polmoni, le gambe, la pelle, hanno dimenticato la sensazione della vera libertà. Anche nella tristezza, provo una certa esultanza.

A livello superficiale, teleportarmi da solo era stato identico a quando Aenea mi teleportava con sé; ma a livello più profondo era stato molto diverso. Il lampo di luce bianca, la naturalezza del mutamento improvviso e il lieve smarrimento per la diversa pressione d’aria o gravità o luce erano stati identici. Ma stavolta avevo udito la luce, anziché vederla. Ero stato trasportato dalla musica delle stelle e della miriade di loro pianeti e avevo scelto io quello su cui volevo mettere piede. Non c’era stato sforzo da parte mia, nessuna grande spesa d’energia, a parte la necessità di concentrarmi e di scegliere con cura. E la musica non era svanita completamente, immaginai che non sarebbe mai svanita, anche ora risuonava in sottofondo, come venisse da musicisti che si esercitassero proprio al di là della collina per un concerto estivo serale.

Vedo segni di superstiti nello sfacelo che copre tutta la città. Nella dorata distanza, due carri di buoi si muovono all’orizzonte e sagome umane li seguono a piedi. Da questo lato del fiume vedo casupole, semplici edifici di mattoni fra i mucchi di pietra antica, una chiesa, un’altra chiesetta. Da qualche parte, molto lontano alle mie spalle, si spandono il profumo di una cena cucinata all’aperto e le inconfondibili risate di bambini che giocano.

Mentre mi giro verso il profumo e il rumore, un uomo spunta da dietro un cumulo di macerie che forse un tempo erano un posto di guardia all’ingresso di Castel Sant’Angelo. È un tipo piuttosto piccolo, svelto: viso seminascosto dalla barba, capelli raccolti a coda, ma occhi attenti. Porta un massiccio fucile a proiettili, del tipo un tempo usato per le cerimonie dalle guardie svizzere.

Ci fissiamo per un momento, l’uomo disarmato e indebolito che ha soltanto un grafer e l’abbronzato cacciatore con l’arma già pronta, e poi ciascuno riconosce l’altro. Non ho mai incontrato quell’uomo, né lui me, ma l’ho già visto nei ricordi di altri, tramite il Vuoto che lega, anche se la prima volta era in uniforme, portava l’armatura e non aveva la barba e l’ultima volta era nudo e sottoposto a tortura. Non so come faccia a riconoscermi, ma vedo il lampo che gli brilla negli occhi: depone il fucile e viene a stringermi la mano e il braccio.

«Raul Endymion!» esclama. «Il giorno è giunto! Grazie al cielo. Benvenuto.» Mi abbraccia, arretra, mi guarda di nuovo e sorride.

«Sei il caporale Kee» dico come uno sciocco. Ricordo più di tutto gli occhi così come li vedeva padre de Soya, mentre lui e Kee e il sergente Gregorius e il lanciere Rettig inseguivano Aenea e me, per anni, in tutto questo braccio della galassia.

«Ex caporale Kee» dice l’uomo e sorride. «Ora sono soltanto Bassin Kee, cittadino di Nuova Roma, membro della diocesi di Sant’Anna, cacciatore per il pasto di domani.» Scuote la testa e mi fissa. «Raul Endymion. Mio Dio. Alcuni pensavano che non saresti mai fuggito da quel maledetto arnese di Schrödinger.»

«Sai dell’ovoide di Schrödinger?»

«Certo» dice Kee. «Era parte del Momento Condiviso. Aenea sapeva dove ti avrebbero portato. Così lo sapevamo tutti. E naturalmente abbiamo percepito la tua presenza lì, tramite il Vuoto.»

All’improvviso sentii le vertigini e un po’ di nausea alla bocca dello stomaco. La luce, l’aria, la grande distanza fino all’orizzonte… L’orizzonte diventò instabile, come se lo guardassi da una piccola nave sopra un mare agitato, perciò chiusi gli occhi. Quando li riaprii, Kee mi sorreggeva per il braccio e mi aiutava a sedermi su una larga lastra bianca che pareva volata dalla cattedrale al di là del fiume vetrificato.

«Mio Dio, Raul» dice Kee «ti sei appena teleportato da lì? Non sei stato da nessun’altra parte?»

«Sì» rispondo. «No.» Traggo due respiri profondi. «Cos’è il Momento Condiviso?» Ripeto le parole come le ho udite, con l’iniziale maiuscola.