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Ket Rosteen e gli Ouster si occuparono dei particolari, portando giù dalla gigantesca nave-albero una decina di erg. Calcolai in seguito che in quella splendida alba di Hyperion circa dieci ettari si alzarono in aria, compresi la torre, la nave del console, i pulsanti cubi di Moebius che avevano trasportato gli erg, lo skimmer, la cucina e la lavanderia annessi alla torre, parte del vecchio istituto di chimica nel campus di Endymion, diversi edifici di pietra, la metà esatta del ponte sul fiume Punta d’Ala e alcuni milioni di tonnellate di roccia e di sottosuolo. Nemmeno ci accorgemmo del decollo: gli erg e i loro aiutanti Ouster e templari manovrarono con tale perfezione i campi di contenimento e di sollevamento che non avremmo notato la minima differenza, se sopra la nostra testa il cielo del mattino non fosse divenuto un immobile campo di stelle nell’apertura circolare della torre e gli ologrammi nella sala di cura non avessero mostrato i nostri progressi. In quella sala, con le stelle che ardevano sopra di noi, A. Bettik, padre de Soya, alcune infermiere androidi e io guardammo gli ologrammi in diretta, mentre io tenevo la mano del vecchio poeta.

Endymion, la più antica città del nostro pianeta e origine del nome della mia famiglia, scivolò silenziosamente nell’alba e nell’atmosfera, per farsi afferrare dai dieci chilometri di nave-albero in nostra attesa in orbita alta. La Sequoia sempervirens aveva schiuso i propri rami per formare un perfetto alloggiamento per noi, tanto che potevamo passare dal suolo di Hyperion ai grandi ponti e ai rami e alle passerelle della nave senza avvertire transizione. Poi la nave-albero si girò verso le stelle.

«Ora tocca a te, Raul» disse la Dorje Phamo. «Il signor Sileno non sopravviverebbe alla traslazione Hawking o alla crio-fuga o al debito temporale.»

«Questa è una nave-albero maledettamente grande» dissi. «A bordo c’è un mucchio di macchinari e di persone. Mi aiuterete, spero!»

«Certo» disse la Dorje Phamo.

«Sì» dissero il Dalai Lama e George e Jigme.

«Ti aiuteremo» disse Rachel, ferma accanto a Theo. Le due donne parevano invecchiate.

«Proveremo anche noi» disse padre de Soya, parlando anche per Ket Rosteen e gli altri radunati nei pressi.

In alto sul ponte della nave, mentre alcune centinaia di metri più in basso l’androide A. Bettik si prendeva cura del suo ex padrone, la Dorje Phamo, Rachel, Theo, il Dalai Lama, George, Jigme, padre de Soya, il capitano templare e gli altri si tennero tutti per mano. Io completai il cerchio. Chiudemmo gli occhi e ascoltammo le stelle.

Mi ero aspettato che il fiume di stelle che era la Piccola Nube di Magellano fosse sospeso sopra la nave-albero; ma quando emergemmo dal lampo luminoso fu subito ovvio che ci trovavamo ancora nel nostro braccio della Via Lattea, a non molti anni luce dal sistema di Hyperion, a dar retta alle ben note costellazioni. Da qualche parte eravamo andati, certo. Ma il pianeta che brillava sopra i rami non mostrava il blu del mare e il bianco delle nuvole della Vecchia Terra o anche di un pianeta di tipo terrestre: era un mondo rosso e desertico, privo di oceani, con sparse pustole di crateri provocati da vulcani o da impatti di meteoriti e una luccicante e candida calotta polare.

«Marte» disse A. Bettik. «Siamo tornati al sistema della Vecchia Terra, intorno alla stella chiamata Sole.»

Tutti noi udimmo nel Vuoto che lega la risonanza della voce di Fedmahn Kassad su quel pianeta. Ci teleportammo giù, trovammo Kassad, gli spiegammo il motivo del viaggio — non aveva bisogno di spiegazioni: ascoltando le voci ci aveva sentiti arrivare — e lo portammo con noi sulla Sequoia sempervirens. Martin Sileno ci avvisò di voler parlare al suo vecchio compagno di pellegrinaggio e io accompagnai il colonnello su per scale e ponti, fino alla torre.

«Il sistema della Vecchia Terra è sicuro, come mi aveva ordinato Colei che insegna» disse Kassad, quando mettemmo piede sul suolo di Hyperion, nel punto dove il frammento di città si annidava tra i rami della nave-albero. «Ormai da dieci mesi nessuna nave della Pax ha messo alla prova le nostre difese. All’interno del sistema solare nessuno, nemmeno le nostre navi da guerra, ha il permesso di avvicinarsi alla Vecchia Terra a meno di venti milioni di chilometri.»

«La Vecchia Terra?» ripetei, sorpreso. Mi fermai di colpo. Kassad si fermò e girò verso di me il suo viso magro e scuro.

«Non la riconosci?» disse. Indicò in alto, nella direzione in cui la nave-albero accelerava a pieno regime sotto la spinta uniforme degli erg.

Aveva l’aspetto di una stella doppia, come tutti i pianeti con un solo grande satellite. Ma potevo vedere il pallido splendore della Luna, più piccola, più fredda. E il bianco e azzurro pulsare di vita che era la Vecchia Terra.

A. Bettik si unì a noi all’entrata della torre. «Quando è stata… quando l’hanno… come… quand’è tornata?» dissi, senza staccare gli occhi dalla Vecchia Terra che intanto, avvicinandoci, era diventata una vera sfera.

«Nell’ora del Momento Condiviso» disse Kassad. Si lisciò l’uniforme nera per eliminare tracce di sabbia rossa e si preparò a presentarsi al vecchio poeta.

«E tutti lo sanno?» Povero stupido Raul Endymion! Sempre l’ultimo a sapere le cose.

«Ora lo sanno» disse il colonnello Fedmahn Kassad.

Salimmo la scala della torre, dal vecchio poeta morente.

Martin Sileno era di buon umore, incontrando il suo vecchio amico dopo quasi duecentottant’anni di separazione.

«Così la tua nera anima assassina diventerà il cristallo seme, quando costruiranno lo Shrike, da qui a un millennio, eh?» ridacchiò il vecchio poeta, per mezzo del sintetizzatore vocale. «Bene, una carrettata di merdosi grazie, Kassad.»

Il colonnello guardò con aria pensierosa quella mummia ghignante. «Come mai non sei già morto, Martin?» disse infine.

«Lo sono, lo sono» replicò Sileno, tossendo. «Ho smesso di respirare secoli e millenni fa. Solo, non sono stati tanto furbi da spingermi giù e seppellirmi.» Il sintetizzatore non cercò di articolare i versi soffocati e i rantoli che seguirono.

«Sei riuscito a terminare quel tuo inutile poema in prosa?» domandò il colonnello, mentre il vecchio poeta continuava a tossire, facendo tremare la rete di tubicini e di cavetti.

«No» dissi io, parlando per la figura scossa dalla tosse sul letto. «Non avrebbe potuto terminarlo.»

«Sì» disse chiaramente Martin Sileno, mediante il laringofono. «L’ho terminato.»

Restai in silenzio.

«A dire il vero» ridacchiò il poeta «lui l’ha finito per me.» Il suo braccio ossuto, rivestito di pelle simile a pergamena, si alzò un poco dal letto. Il pollice, storto dall’artrite, si mosse nella mia direzione.

Il colonnello Kassad mi lanciò un’occhiata. Scossi la testa.

«Sei proprio fottutamente ottuso, ragazzo» disse Martin Sileno, in quello che l’altoparlante tradusse come tono affettuoso. «Vedi il tuo grafer da qualche parte?»

Mi girai di scatto e guardai il tavolino accanto al letto, dove avevo lasciato il grafer. Non c’era più.

«Tutto stampato» gracchiò Sileno. «Ho tagliato circa un miliardo di ricordi superflui. L’ho mandato nella sfera dati, prima della partenza.»

«Non esiste sfera dati» dissi.

A furia di ridere Martin Sileno si procurò un accesso di tosse. Alla fine il sintetizzatore tradusse alcuni colpi, di tosse con: «Non sei solo stupido, ragazzo. Sei irrecuperabile. Cosa credi che sia il Vuoto? È la maledetta sfera dati del maledetto universo, ragazzo. La ascoltavo da secoli, prima che la bambina mi desse la comunione per ascoltarla con i bachi nanotec che circolano dentro di me. È questo, ragazzo, ciò che fanno gli scrittori, gli artisti, i creatori. Ascoltano il Vuoto e cercano di udire i pensieri dei morti. Sentire il loro dolore. Il dolore dei vivi, anche. Trovare una musa è solo il modo di un artista o di un sant’uomo per mettere un piede nella porta principale del Vuoto che lega. Aenea lo sapeva. Avresti dovuto saperlo anche tu».

«Non aveva alcun diritto di trasmettere la mia narrazione» dissi. «È mia. L’ho scritta io. Non fa parte dei suoi Canti.» Se avessi saputo con certezza quale dei tubicini collegati a lui era quello dell’ossigeno, l’avrei pestato e non avrei tolto il piede finché non fossero terminati i suoi rantoli.