I due uomini e la donna scesero dalla scaletta e passarono in rassegna la scena. In quella parte del pianeta era metà mattino: il fiume rumoreggiava sulle rapide, gli uccelli e gli arboricoli lanciavano i loro richiami nascosti nei fitti alberi più lontano a valle. L’aria profumava di aghi di pino, di inclassificabili odori alieni, di terriccio bagnato e di cenere. Più di due secoli e mezzo prima, Bosco Divino era stato bombardato dallo spazio e devastato. Gli alberi dei templari, alti duecento metri, erano stati distrutti; quelli che non erano fuggiti nello spazio erano bruciati in un grande incendio durato per la maggior parte di un secolo, estinto alla fine solo da un inverno nucleare.
«Attenti» disse uno degli uomini, mentre i tre scendevano alla riva del fiume. «I monofilamenti piazzati qui da lei dovrebbero essere ancora al loro posto.»
La donna annuì e dallo zaino di flussoschiuma che portava in spalla tolse un’arma laser. Selezionò su massima dispersione il raggio del laser e sventagliò il fiume. Filamenti così sottili da sfuggire alla vista brillarono come una tela di ragno nella rugiada del mattino, una tela che intersecava il fiume, girava intorno ai massi, si immergeva nell’acqua coperta di spuma e ne riemergeva.
«Dove dobbiamo lavorare non ce ne sono» disse la donna, spegnendo il laser. I tre attraversarono una depressione lungo il fiume e risalirono un pendio roccioso. Lì il granito aveva raggiunto la fusione ed era affluito a valle come lava durante la distruzione di Bosco Divino, ma in un punto del terreno a terrazze c’erano segni di una catastrofe più recente. Accanto alla sommità di un macigno, dieci metri sopra il fiume, c’era un cratere scavato dal fuoco nella solida roccia. Perfettamente circolare, profondo mezzo metro, il cratere aveva un diametro di cinque metri. Nel lato a sudest, dove una cascata di roccia fusa si era riversata fra mille zampilli nel fiume, si era formata una sorta di scalinata di pietra nera. La roccia che riempiva la cavità circolare in cima al masso era più scura e più liscia del resto: pareva lucida onice posta in un crogiolo di granito.
Uno degli uomini scese nella cavità, si distese sulla liscia pietra e accostò l’orecchio alla roccia. Dopo un secondo si alzò e rivolse agli altri due un cenno di assenso.
«Fatevi indietro» disse la donna. Toccò il comlog da polso.
I tre erano arretrati di cinque passi, quando la lancia di pura energia saettò dallo spazio. Uccelli e arboricoli fuggirono tra gli alberi, schiamazzando di terrore. L’aria si ionizzò e si surriscaldò in pochi secondi, produsse un’onda d’urto in ogni direzione. Rami e foglie presero fuoco a cinquanta metri dal punto di contatto del raggio di energia. Il conoide di vivido splendore coprì esattamente il diametro della conca circolare nel masso e ne mutò la liscia superficie in un lago di fuoco fuso.
I due uomini e la donna non trasalirono. Le tute spaziali cominciarono a fumare nel calore intenso come al centro di una fornace, ma il tessuto speciale non prese fuoco. Nemmeno la carne dei tre.
«Ora» disse la donna, superando il ruggito del raggio d’energia e della tempesta di fuoco in espansione. Il raggio dorato svanì di colpo. Aria calda si precipitò a riempire il vuoto, con la violenza di una raffica di tempesta. La conca nella roccia era un cerchio di lava ribollente.
Uno degli uomini piegò il ginocchio e parve tendere l’orecchio. Poi rivolse agli altri un cenno e mutò di fase. L’attimo prima era carne e ossa e sangue e pelle e capelli; l’attimo seguente era una scultura di cromo e argento, a forma d’uomo. Il cielo azzurro, la foresta ardente e il lago di fuoco fuso si riflettevano alla perfezione sulla sua pelle argentata e cangiante. L’uomo tuffò un braccio nel lago, si piegò sulle ginocchia per arrivare più a fondo, estrasse qualcosa. La sagoma argentea della sua mano parve essersi amalgamata nella superficie di un’altra argentea sagoma umana, quella di una donna. Tra sibili e zampilli, la scultura maschile tirò fuori dal calderone di lava la scultura femminile e la trasportò per cinquanta metri, in un punto dove l’erba non aveva preso fuoco e la pietra era abbastanza fredda da reggere il loro peso. Il secondo uomo e la donna lo seguirono.
Il primo uomo mutò di fase e non fu più una sagoma argento e cromo; l’attimo dopo la donna da lui trasportata lo imitò. Quella che emerse dalla forma d’argento liquido pareva la gemella della donna dai capelli corti in tuta spaziale.
«Dov’è la piccola bastarda?» domandò la donna appena ripescata dalla roccia fusa. Un tempo aveva un nome: Rhadamanth Nemes.
«Tutti spariti» rispose l’uomo che l’aveva ripescata. Lui e il suo compagno parevano fratelli o cloni della stessa persona. «Hanno raggiunto l’ultimo teleporter.»
Rhadamanth Nemes reagì con una smorfia. Fletteva le dita e muoveva le braccia come per riprendersi dai crampi. «Almeno ho ucciso il maledetto androide» commentò.
«No» disse l’altra donna, la sua gemella. Non aveva nome. «Sono partiti nella navetta della Raffaele. L’androide ha perduto un braccio, ma è sopravvissuto grazie al robochirurgo.»
Nemes annuì e riportò lo sguardo sull’altura rocciosa dove scorreva ancora la lava. Il bagliore del fuoco mostrava sul fiume il luccichio della rete di monofilamenti. Alle spalle dei quattro, la foresta era in fiamme.
«Non era… piacevole… là dentro» disse Nemes. «Non ho potuto muovermi, schiacciata dalla forza del raggio d’energia della nave, e poi non ho potuto mutare di fase, circondata com’ero dalla roccia. È stata necessaria una concentrazione immensa, per ridurre al minimo l’energia e mantenere ancora attiva un’interfaccia di mutamento di fase. Per quanto tempo sono rimasta sepolta?»
«Quattro anni terrestri» disse l’uomo che fino a quel momento non aveva aperto bocca.
Rhadamanth Nemes inarcò il sopracciglio, non tanto per la sorpresa quanto per chiedere spiegazioni. «Eppure il Nucleo sapeva dov’ero…»
«Il Nucleo sapeva dov’eri» confermò l’altra donna. Aveva la stessa voce e la stessa espressione di quella appena salvata. «E sapeva che hai fallito.»
Nemes sorrise a denti stretti. «Allora i quattro anni sono stati un castigo.»
«Un promemoria» precisò l’uomo che l’aveva estratta dalla roccia fusa.
Rhadamanth Nemes mosse due passi, come per saggiare l’equilibrio. Parlò in tono neutro. «Perché siete venuti a prendermi?»
«La ragazza» spiegò l’altra donna. «Sta tornando. Dobbiamo riprendere la tua missione.»
Nemes annuì.
L’uomo che l’aveva ricuperata le posò la mano sulla spalla. «Tieni presente che quattro anni in una tomba di fuoco e di roccia saranno roba da ridere a confronto di ciò che puoi aspettarti nel caso di un secondo fallimento.»
Nemes lo fissò a lungo, senza parlare. Poi tutti e quattro, girando le spalle alla roccia fusa e alle fiamme, con un movimento che pareva disposto da una precisa coreografia, all’unisono, tornarono alla navetta.
Sul pianeta desertico Madrededios, nell’alto pianoro chiamato Llano Estacado a causa dei piloni generatori di atmosfera che ritagliavano il deserto a intervalli di dieci chilometri formando una griglia regolare, padre Federico de Soya si preparò per la messa di primo mattino.
La piccola città di Nuevo Atlan contava meno di trecento abitanti — in gran parte minatori di bauxite della Pax in attesa di morire prima di tornare a casa, più alcuni marianisti convertiti che si guadagnavano stentatamente da vivere facendo i pastori di corgor nelle tossiche terre desolate — e padre de Soya sapeva con esattezza quante persone avrebbe trovato nella cappella per la prima messa: quattro, ossia la vecchia signora Sanchez, una vedova molto anziana che si diceva avesse ucciso il marito durante una tempesta di sabbia, sessantadue anni prima; i gemelli Perell, che per ignote ragioni preferivano la vecchia e cadente chiesetta alla cappella della compagnia, pulitissima e munita d’aria condizionata, nella riserva mineraria; e il misterioso vecchio dal viso segnato dalle radiazioni che se ne stava inginocchiato nell’ultimo banco e non faceva mai la comunione.