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Soffiava una tempesta di sabbia, ne soffiava sempre una, e padre de Soya superò di corsa gli ultimi trenta metri, dalla parrocchia di mattoni crudi alla sacrestia, coprendosi la testa e le spalle con una mantella di fibroplastica trasparente per proteggere l’abito talare e la berretta, e tenendo il breviario infilato nella tasca della tonaca per mantenerlo pulito. Non funzionò. Ogni sera, quando si toglieva la tonaca o appendeva a un gancio la berretta, la sabbia si riversava in una cascatella rossastra, simile a sangue secco da una clessidra rotta. E ogni mattina, quando apriva il breviario, la sabbia crepitava tra le pagine e gli si attaccava alle dita.

«Buon giorno, padre» disse Pablo, mentre il prete entrava di corsa in sacrestia e faceva scivolare i frusti sigilli antivento sull’intelaiatura della porta.

«Buon giorno, Pablo, il mio più fedele chierichetto» rispose padre de Soya. In realtà, si corresse tra sé, il mio unico chierichetto. Pablo era un bambino semplice — nell’antico senso della parola, ossia lento di mente oltre che onesto, sincero, fedele e amichevole — e serviva messa ogni giorno della settimana, alle sei e mezzo, e due volte la domenica, anche se alla prima messa domenicale assistevano sempre le stesse quattro persone e alla seconda messa sei o sette minatori di bauxite.

Pablo annuì e sorrise; per un attimo il sorriso scomparve sotto la cotta pulita e inamidata che infilò sulla tonaca da chierichetto.

Padre de Soya passò davanti al bambino, gli arruffò i capelli neri e aprì l’alta cassapanca dei paramenti sacri. Il mattino era diventato scuro come la notte nel deserto: la tempesta di sabbia aveva inghiottito l’alba e l’unica luce della stanza spoglia e fredda proveniva dalla tremolante lampada della sacrestia. De Soya si mise in ginocchio, pregò con zelo per alcuni secondi, poi cominciò a indossare i paramenti.

Per due decenni, in qualità di padre capitano nella Flotta della Pax, comandante di navi torcia come la Baldassarre, Federico de Soya aveva portato uniformi dove la croce e il collare erano gli unici segni della sua condizione di prete. Aveva portato l’armatura da battaglia di plastiridio, tute spaziali, impianti ricetrasmittenti tattici, visori per il piano dati, waldoguanti, tutti gli accessori di un capitano di nave torcia, ma nessuno di quegli oggetti l’aveva toccato e commosso come quei semplici paramenti da prete di parrocchia. In quei quattro anni, da quando era stato privato del grado di capitano e rimosso dal servizio nella Flotta, il padre capitano de Soya aveva riscoperto la propria vocazione originaria.

Ora indossò l’amitto, infilandoselo da sopra come una camicia da notte, che gli ricadde fino alle caviglie. L’amitto era di lino bianco e immacolato, malgrado le incessanti tempeste di sabbia; altrettanto pulito era il camice sacerdotale che indossò dopo. Poi si strinse alla vita la cintura e intanto mormorò una preghiera. Prese dalla cassapanca dei paramenti sacri la stola bianca di seta e se la mise al collo, incrociandola sul petto. Dietro di lui, Pablo si affaccendava per la piccola stanza, riponeva gli stivali sporchi di sabbia e metteva le economiche scarpe da corsa di fibroplastica che sua madre gli aveva detto di tenere lì proprio per la messa.

Padre de Soya si sistemò la dalmatica con una croce a T sul davanti. Era bianca, con un sottile bordino viola: quel mattino avrebbe detto una messa di benedizione e chiesto silenziosamente perdono per la presunta vedova e assassina nel primo banco e per il misterioso vecchio segnato dalle radiazioni nell’ultimo.

Pablo si affrettò a raggiungerlo; sorrideva ed era senza fiato. Padre de Soya gli mise la mano sulla testa e cercò di appiattire la zazzera ribelle, mentre rassicurava e calmava il bambino. Alzò il calice, tolse la destra dalla testa del chierichetto, la tenne sopra il calice coperto e disse piano: «È tutto a posto».

Pablo tornò serio, consapevole infine della gravità del momento, e guidò il corteo di due persone fuori della sacrestia, verso l’altare.

De Soya notò subito che nella cappella c’erano cinque persone, non quattro: i suoi soliti fedeli — tutti in ginocchio, si alzarono e tornarono a inginocchiarsi, ciascuno al suo posto abituale — più qualcun altro, una persona alta e silenziosa, in piedi nella penombra più fitta, dove il piccolo atrio si apriva nella navata centrale.

Per tutta la Messa Rinnovata, padre de Soya non riuscì a levarsi di mente l’estraneo, pur tentando di allontanare ogni pensiero e concentrarsi sul sacro mistero del quale era parte.

«Dominus vobiscum» intonò. Per più di tremila anni, credeva, il Signore era stato davvero con loro, con tutti loro.

«Et cum spiritu tuo» disse ancora padre de Soya; e mentre Pablo ripeteva le sue parole, girò un poco la testa per vedere se la luce avesse illuminato la sagoma alta e magra nell’angolo buio all’ingresso della navata centrale. L’estraneo era sempre poco visibile.

Durante il canone, padre de Soya dimenticò la persona misteriosa e riuscì a concentrare l’attenzione sull’ostia consacrata che alzò fra le dita tozze. «Hoc est enim corpus meum» disse, scandendo bene le parole, sentendo il loro potere, pregando per la decimillesima volta che i suoi peccati di violenza nel periodo in cui era stato capitano della Flotta fossero lavati dal sangue e dalla misericordia del Salvatore.

Al momento della comunione, si presentarono solo i gemelli Perell. Come sempre. De Soya recitò le parole e offrì la particola ai due giovani. Resistette all’impulso di lanciare un’occhiata allo sconosciuto nella penombra in fondo alla chiesa.

La messa terminò quasi nell’oscurità. L’ululato del vento soffocò le ultime preghiere e le risposte. La piccola chiesa non aveva elettricità, non l’aveva mai avuta, e la tremolante fiammella delle dieci candele alla parete era sopraffatta dalle tenebre. Padre de Soya diede la benedizione finale e portò il calice sul piccolo altare della buia sacrestia. Pablo si affrettò a togliersi la cotta e a infilarsi l’anorak per proteggersi dalla tempesta.

«A domani, Padre!»

«Sì, grazie, Pablo. Non dimenticare…» Troppo tardi. Il bambino era già uscito e correva allo stabilimento di spezie, dove lavorava col papà e con gli zii. Sabbia rossastra riempì l’aria intorno alla porta mal sigillata.

In un giorno normale, ora padre de Soya si sarebbe tolto i paramenti e li avrebbe riposti nella cassapanca. Più tardi li avrebbe portati nella casa parrocchiale per ripulirli. Ma quel mattino rimase in dalmatica e stola, camice e cintura e amitto. Per chissà quale ragione sentiva di averne bisogno, proprio come aveva sentito di avere bisogno dell’armatura da battaglia di plastiridio durante gli abbordaggi nella campagna del Sacco di Carbone.

L’alta figura, ancora in ombra, comparve sulla porta della sacrestia. Padre de Soya la guardò e attese in silenzio, resistendo all’impulso di farsi il segno della croce o di alzare l’ultima particola consacrata come per proteggersi da un vampiro o dal demonio. Fuori, gli ululati del vento si mutarono in urla di anime spettrali.

La figura mosse un passo nella luce color rubino diffusa dalla lampada della sacrestia. De Soya riconobbe allora il capitano Marget Wu, aiutante personale e ufficiale di collegamento dell’ammiraglio Marusyn, comandante della Flotta della Pax. Per la seconda volta, quel mattino, de Soya si corresse: adesso la donna era diventata ammiraglio, come indicavano le stellette sul colletto, appena visibili nella luce rossastra.