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«Padre capitano de Soya?» disse l’ammiraglio Wu.

Il gesuita scosse lentamente la testa. Erano soltanto le sette e mezzo del mattino in quel pianeta dal giorno di ventitré ore, ma lui si sentiva già stanco. «Solo padre de Soya» rispose.

«Padre capitano de Soya» ripeté Wu e stavolta non era una domanda. «Da questo momento lei è richiamato in servizio attivo. Ha dieci minuti per raccogliere le sue cose e venire con me. Il richiamo ha effetto immediato.»

Federico de Soya sospirò e chiuse gli occhi. Aveva voglia di piangere. "Ti prego, Signore, allontana da me questo calice." Quando riaprì gli occhi, il calice era ancora sul piccolo altare e l’ammiraglio Marget Wu era sempre in attesa.

«Sissignore» disse piano de Soya. Lentamente, con cura, iniziò a togliersi i paramenti sacri.

Il terzo giorno dopo la morte e la sepoltura di papa Giulio XIV, nella culla di risurrezione ci fu movimento. I sottili cavetti e le sonde della macchina si ritrassero e scomparvero. Sulle prime, il corpo disteso sulla lastra di marmo rimase immobile, come inanimato, a parte l’alzarsi e abbassarsi del petto nudo, poi si contrasse visibilmente, poi gemette; dopo parecchi minuti si alzò sul gomito e alla fine si mise a sedere, mentre il sudario di seta e di lino, tutto ricamato, gli scivolava giù dai fianchi.

Per diversi minuti l’uomo rimase seduto sul bordo della lastra di marmo, tenendosi la testa fra le mani ancora tremanti. Poi, quando un pannello segreto nella parete della cappella di risurrezione si aprì come un frullo d’ali, alzò lo sguardo. Un cardinale in tonaca rossa si mosse nel locale scarsamente illuminato, con un fruscio di seta e un tintinnio di grani del rosario. Lo accompagnava un uomo alto, bello, coi capelli brizzolati e gli occhi grigi. L’uomo indossava un semplice ma elegante completo di flanella grigia. Tre passi dietro il cardinale e l’uomo in grigio venivano due guardie svizzere nella classica uniforme medievale blu e arancio. Non portavano armi.

L’uomo nudo sulla lastra di marmo batté le palpebre, come se non si fosse ancora abituato alla luce soffusa della cappella. Alla fine mise a fuoco la vista. «Lourdusamy» disse.

«Padre Duré» salutò il cardinale Lourdusamy. Reggeva un calice d’argento di misura superiore al normale.

L’uomo nudo mosse le labbra e la lingua come se si fosse svegliato con un orribile sapore in bocca. Era più anziano del cardinale, aveva viso magro e ascetico, occhi tristi, vecchie cicatrici sul corpo appena riportato in vita. Sul petto gli rilucevano due tumidi crucimorfi. «In che anno siamo?» domandò infine.

«Nell’anno di Nostro Signore 3131» rispose il cardinale, sempre in piedi davanti all’altro, seduto sulla lastra di marmo.

Padre Paul Duré chiuse gli occhi. «Cinquantasette anni dalla mia ultima risurrezione. Duecentosettantanove anni dalla Caduta dei teleporter.» Aprì gli occhi e guardò il cardinale. «Duecentosettanta anni da quando mi avvelenasti, uccidendo così papa Teilhard I.»

Il cardinale Lourdusamy rise, con voce da basso. «Ti riprendi in fretta dal disorientamento della risurrezione, se riesci a fare così bene i conti.»

Padre Duré spostò lo sguardo dal cardinale all’uomo in grigio. «Albedo» disse. «Vieni per essere testimonio? O devi dare coraggio al tuo Giuda addomesticato?»

L’uomo in grigio rimase in silenzio. Il cardinale Lourdusamy aveva già stretto le labbra sottili, al punto da farle scomparire tra le floride guance. «Hai altro da dire, prima di tornare all’inferno, antipapa?»

«Non a voi» mormorò padre Duré. Chiuse gli occhi, in preghiera.

Le due guardie svizzere lo afferrarono per le braccia. Padre Duré non oppose resistenza. Una delle guardie lo prese per la fronte e gli spinse indietro la testa, obbligandolo a inarcare il collo.

Il cardinale si avvicinò con grazia di mezzo passo. Dalle pieghe della manica di seta estrasse un coltello dal manico d’avorio. Mentre la guardia teneva fermo l’ancora passivo Duré, il cui pomo d’Adamo pareva schizzare dal magro collo a causa del piegamento della testa, Lourdusamy mosse il braccio in un fluido gesto, come per allontanare qualcosa. Il sangue sgorgò dalla carotide recisa di Duré.

Indietreggiando per non macchiarsi la tonaca, Lourdusamy rimise nella manica il coltello, sollevò il grande calice e vi raccolse i fiotti di sangue. Quando il calice fu quasi pieno e il sangue smise di sgorgare a fiotti, rivolse un cenno alla guardia, che subito lasciò andare la testa di padre Duré.

L’uomo appena risuscitato era di nuovo un cadavere: testa ciondoloni, occhi ancora chiusi, bocca aperta, la ferita alla gola simile a labbra dipinte in un orribile ghigno. Le due guardie svizzere sistemarono sulla lastra di marmo il cadavere e tolsero il sudario. L’uomo nudo pareva cereo e vulnerabile: gola tagliata, petto segnato di cicatrici, lunghe dita livide, ventre pallido, flaccidi genitali, gambe magre come chiodi. La morte, pur in un’epoca di risurrezione, lascia ben poca dignità anche in chi ha vissuto una vita di ininterrotto autocontrollo.

Mentre le guardie tenevano scostato il magnifico sudario, il cardinale Lourdusamy versò il sangue contenuto nel pesante calice sugli occhi del morto, sulla bocca spalancata, sulla ferita aperta, sul petto, sul ventre, sull’inguine: la macchia rossa, sempre più larga, uguagliò e sorpassò in intensità il colore della veste del cardinale.

«Sie aber seid nich fleischlich, sondern geistlich» disse il cardinale Lourdusamy. «Non siete fatti di carne, ma di spirito.»

L’uomo alto inarcò il sopracciglio. «Bach, vero?»

«Naturalmente» rispose il cardinale, deponendo accanto al cadavere il calice ora vuoto. Rivolse un cenno alle due guardie svizzere, che stesero sul cadavere il sudario di seta e di lino. Il sangue inzuppò immediatamente i magnifici tessuti.

«Jesus, meine Freund» soggiunse Lourdusamy.

«Lo pensavo» disse l’uomo alto. Rivolse al cardinale un’occhiata interrogativa.

«Sì» convenne il cardinale Lourdusamy. «Ora.»

L’uomo in grigio girò intorno alla lastra di marmo e si pose alle spalle delle due guardie svizzere, che terminavano di rimboccare il sudario inzuppato di sangue. Quando si raddrizzarono e arretrarono di un passo, l’uomo in grigio alzò le mani e le portò alla nuca dei due uomini. I due spalancarono occhi e bocca, ma non ebbero il tempo di emettere suono: in un secondo, occhi e bocca sfolgorarono di luce incandescente, la pelle divenne traslucida e lasciò scorgere la fiamma arancione dentro il corpo; poi i due sparirono, particelle volatilizzate e sparpagliate, più sottili della cenere.

L’uomo in grigio si strofinò le mani per ripulirle del sottile strato di cenere molecolare.

«Un vero peccato, consigliere Albedo» mormorò il cardinale Lourdusamy, con la sua vociona da basso.

L’uomo in grigio guardò la traccia di polvere posarsi nella fioca luce, poi riportò lo sguardo sul cardinale. Inarcò il sopracciglio, con aria interrogativa.

«No, no, no» rombò Lourdusamy. «Mi riferivo al sudario. Le macchie non verranno mai via. Dopo ogni risurrezione bisogna tesserne uno nuovo.» Si girò con un fruscio di tonaca e guardò il pannello segreto. «Venga, Albedo. Dobbiamo parlare e prima di mezzogiorno devo ancora celebrare una messa di ringraziamento.»

Il pannello si chiuse alle spalle dei due; la camera di risurrezione rimase silenziosa e vuota, a parte il cadavere coperto dal sudario e una lievissima traccia di foschia grigia nella debole luce, una nebbiolina mutevole e sempre più sfumata che faceva pensare al distacco dell’anima dei due morti più recenti.

2

Nella settimana in cui papa Giulio morì per la nona volta e padre Duré fu assassinato per la quinta, Aenea e io eravamo a 160.000 anni luce di distanza, sul pianeta trafugato, la Terra — la Vecchia Terra, la Terra vera -, in orbita intorno a una stella di tipo G che non era il Sole, nella Piccola Nube di Magellano, una galassia che non era la galassia della Terra.

Per noi era stata una settimana bizzarra. Non sapevamo, naturalmente, che il papa era morto, perché non esistevano contatti fra la Terra e lo spazio della Pax, a parte i teleporter ormai inattivi. A dire il vero, adesso lo so, Aenea sapeva della dipartita del papa, per tramiti che a quel tempo non sospettavamo, ma a noi non parlò degli eventi accaduti nello spazio della Pax e nessuno pensò di farle domande al riguardo. La nostra vita sulla Terra, in quegli anni d’esilio, era semplice e pacifica e attiva, e ci dava emozioni che ora sono difficili da sondare e quasi dolorose da ricordare. Comunque, quella particolare settimana per noi era stata intensa, ma niente affatto semplice né pacifica: il lunedì era morto il Vecchio Architetto con cui Aenea aveva studiato negli ultimi quattro anni e il suo funerale era stato una faccenda triste e frettolosa nel deserto, quella sera d’inverno, martedì. Il mercoledì Aenea aveva compiuto sedici anni, ma l’evento fu messo in ombra dalla cappa di cordoglio e di confusione che pesava sulla Compagnia Taliesin; solo A. Bettik e io avevamo tentato di festeggiare con Aenea il suo compleanno.