L’androide aveva messo in forno una torta al cioccolato, la preferita di Aenea, e io avevo lavorato per giorni per ricavare da un robusto ramo trovato in una delle gite obbligatorie sulle vicine montagne, volute dal Vecchio Architetto, un bastone da passeggio finemente intagliato. Quella sera mangiammo la torta e bevemmo un po’ di champagne nel piccolo rifugio costruito dall’apprendista Aenea nel deserto; ma lei era mogia mogia, turbata per la morte del vecchio e per il panico della Compagnia. Mi rendo conto adesso che gran parte del suo turbamento derivava di sicuro dalla consapevolezza della morte del papa, dei violenti eventi che si ammassavano all’orizzonte futuro e della fine di quelli che sarebbero stati i più pacifici quattro anni che avessimo mai conosciuto insieme.
Ricordo la conversazione, la sera del suo sedicesimo compleanno. Il buio era calato presto e l’aria era gelida. Fuori della comoda casa di pietra e di tela che lei aveva costruito quattro anni prima, come esame per essere accolta fra gli apprendisti, la polvere soffiava e le piante di artemisia e di yucca stormivano e si torcevano nella stretta del vento. Seduti accanto alla sibilante lanterna, mettemmo da parte i bicchieri di champagne in favore di tazze di tè caldo e parlammo a bassa voce, mentre la sabbia raspava sulla tela.
«È strano» dissi. «Sapevamo che era vecchio e malato, ma nessuno credeva davvero che sarebbe morto.» Mi riferivo ovviamente al Vecchio Architetto, non al lontanissimo papa che per noi significava ben poco. Inoltre, come tutti noi nella Terra esiliata, il Vecchio Architetto mentore di Aenea non aveva il crucimorfo: la sua morte, al contrario di quella del papa, era definitiva.
«Pareva saperlo» disse piano Aenea. «Nell’ultimo mese ha chiamato a uno a uno tutti i suoi apprendisti. Per spartire le ultime briciole di sapienza.»
«Qual è l’ultima briciola di sapienza che ha spartito con te? Se non si tratta di un segreto o di faccende personali.»
Aenea sorrise dietro la tazza di tè fumante. «Mi ha ricordato che il cliente è sempre disposto a pagare il doppio del preventivo, se gli mandi le fatture extra un po’ per volta, quando la costruzione è già iniziata e l’edificio prende forma. Ha detto che con questo sistema si supera il punto di non ritorno: il cliente è preso all’amo come una trota da sei libbre.»
A. Bettik e io ci mettemmo a ridere. Non era una risata irriverente: il Vecchio Architetto era stato una di quelle rare persone che uniscono al vero genio una personalità irresistibile; ma pur ricordandolo con tristezza e affetto non potevamo non riconoscere che era stato anche un uomo egoista e subdolo. E non intendo essere elusivo, riferendomi a lui solo come al Vecchio Architetto: la personalità stampo per quel cìbrido era stata ricostruita da un architetto vissuto prima dell’Egira, Frank Lloyd Wright, attivo tra il XIX e il XX secolo. Tutti, nella Compagnia Taliesin, lo chiamavano rispettosamente signor Wright, compresi gli apprendisti più anziani, suoi coetanei; ma io ho sempre pensato a lui come al Vecchio Architetto, a causa di ciò che Aenea aveva detto del suo futuro mentore, prima che giungessimo sulla Vecchia Terra.
Come se avesse seguito la linea dei miei pensieri, A. Bettik disse: «È curioso, no?».
«Cosa?» domandò Aenea.
L’androide sorrise e si strofinò il braccio sinistro che terminava, appena sotto il gomito, in un liscio moncherino: un’abitudine che ha preso negli ultimi anni. Il robochirurgo della navetta con cui avevamo attraversato il teleporter su Bosco Divino aveva tenuto in vita A. Bettik, ma la particolare biochimica dell’androide non aveva consentito al macchinario di fargli crescere un braccio nuovo. «Voglio dire che, malgrado l’influenza della Chiesa negli affari della specie umana, la domanda se l’uomo abbia o no un’anima che lascia il corpo dopo la morte non ha ancora avuto una risposta precisa» spiegò A. Bettik. «Però, nel caso del signor Wright, sappiamo che la sua personalità cìbrida esiste ancora separata dal suo corpo… o almeno è esistita per un certo tempo, dopo il momento della sua morte.»
«Lo sappiamo con certezza?» obiettai. Il tè era caldo e buono: Aenea e io l’avevamo comprato (barattato, in realtà) al mercato indiano, nel deserto, dove si sarebbe dovuta trovare la città di Scottsdale.
Fu Aenea a rispondermi. «Sì. La personalità cìbrida di mio padre sopravvisse alla distruzione del corpo e fu memorizzata nel disco d’iterazione Schrön impiantato nel cranio di mia madre. Anche dopo, ha avuto un’esistenza separata nella megasfera e poi per un certo periodo è stata nell’astronave del console. Una personalità cìbrida sopravvive come una sorta di fronte d’onda olistico propagato lungo le matrici del piano dati o della megasfera, finché non ritorna alla fonte IA nel Nucleo.»
Conoscevo quella spiegazione, ma non l’avevo mai capita. «D’accordo» dissi «ma dove è andato il fronte d’onda della personalità IA del signor Wright? Non può esserci nessun collegamento con il Nucleo, qui nella Nube di Magellano. Non esistono sfere dati, qui.»
Aenea posò la tazza vuota. «Un collegamento c’è di sicuro, altrimenti il signor Wright e le altre personalità cìbride riunite sulla Terra non esisterebbero. Non dimenticare che il TecnoNucleo sfruttava lo spazio di Planck fra i teleporter come proprio ambiente e nascondiglio, prima che la moribonda Egemonia distruggesse i portali.»
«Il Vuoto che lega» dissi, ripetendo l’espressione usata dal vecchio poeta Martin Sileno nei suoi Canti.
«Già» disse Aenea. «Ma l’ho sempre ritenuta un’espressione sciocca.»
«Quale che sia il nome» replicai «non capisco come possa estendersi fin qui… in un’altra galassia.»
«L’ambiente utilizzato dal TecnoNucleo per i teleporter si estende dappertutto» disse Aenea. «Permea lo spazio e il tempo.» Corrugò la fronte. «No, non è esatto: spazio e tempo sono legati in esso. Il Vuoto che lega trascende lo spazio e il tempo.»
Mi guardai intorno. La luce di lanterna bastava a riempire la piccola costruzione a tenda, ma fuori era buio e il vento ululava. «Allora il Nucleo può davvero arrivare fin qui?»
Aenea scosse la testa. Avevamo già discusso quell’argomento. Non avevo capito il concetto allora e non lo capivo adesso.
«Questi cìbridi sono collegati a Intelligenze Artificiali che non fanno realmente parte del Nucleo» disse Aenea. «La personalità del signor Wright non ne faceva parte. E neppure mio padre… il secondo cìbrido di Keats.»
Questo era il passaggio che non avevo mai capito. «I Canti dicono che i cìbridi di Keats, tuo padre incluso, furono creati da Ummon, una IA del Nucleo. Ummon disse a tuo padre che i cìbridi erano un esperimento del Nucleo.»
Aenea si alzò e si accostò all’apertura della sua casa da apprendista. La tela ai lati si increspava nel vento, ma manteneva la forma e impediva alla sabbia di entrare. Aenea l’aveva costruita bene. «Nei suoi Canti zio Martin raccontò la verità come meglio poteva» disse. «Ma c’erano elementi che non capiva.»
«Nemmeno io.» Lasciai cadere l’argomento. Mi accostai a Aenea e la circondai col braccio, sentendo gli indefinibili cambiamenti nella sua schiena, spalla e braccio, dalla prima volta che l’avevo stretta in quel modo, quattro anni prima. «Buon compleanno, ragazzina.»