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«Raul» disse di nuovo Aenea, quando le ombre si furono estese dappertutto e l’aria cominciò a raffreddarsi «vuoi venire con me?»

Non risposi, ma la seguii nella pietraia, evitando nell’oscurità le spine simili a baionette delle piante di yucca e quelle dei bassi cactus, finché non fummo nella zona illuminata del comprensorio. "Quanto tempo ci resta" mi domandai "prima che il combustibile per i generatori si esaurisca?" Conoscevo la risposta: era compito mio tenere in buone condizioni i generatori e rifornirli di carburante. Avevamo un quantitativo sufficiente per sei giorni nei serbatoi principali e per altri dieci giorni in quelli di riserva, che non bisognava toccare se non in caso di emergenza. Sparito il mercato indiano, non ci sarebbero stati rifornimenti. Quasi tre settimane di luce e di corrente per i frigoriferi e gli impianti elettrici e poi… che cosa? Tenebra, decadimento e fine dell’incessante attività di costruzione e abbattimento e ricostruzione, che era stato il rumore di fondo a Taliesin negli ultimi quattro anni.

Pensai che forse saremmo andati nel refettorio, invece passammo davanti alle finestre illuminate — gruppi di persone sedute ancora a tavola, intente a discutere con ansia, al nostro passaggio alzarono la testa per rivolgere occhiate solo a Aenea (per loro, nell’ora del panico, io ero invisibile) — e ci avvicinammo allo studio e ufficio privato del signor Wright. Non ci fermammo neppure lì. Né ci fermammo nella piccola e bella sala per conferenze, dove un gruppetto guardava un ultimo film (ancora tre settimane e poi il proiettore avrebbe smesso di funzionare) né entrammo nella sala di disegno principale.

La nostra destinazione era un laboratorio di pietra e di tela, situato in fondo al viale sul lato sud, utile per lavorazioni con l’impiego di gas tossici o di macchinari rumorosi. Vi avevo lavorato spesso nei primi due anni, ma non negli ultimi mesi.

A. Bettik aspettava sulla soglia. L’androide dalla pelle azzurra aveva sul viso un sorriso lieve e sereno, simile a quello che sfoggiava quando aveva portato la torta nella festa a sorpresa per il compleanno di Aenea.

«Cosa c’è?» dissi, ancora irritato, girando lo sguardo dal viso esausto di Aenea a quello, compiaciuto di sé, dell’androide.

Aenea entrò nel laboratorio e accese le luci.

Sul banco da lavoro al centro del piccolo locale c’era una barchetta lunga non più di due metri. Aveva la forma di un seme dalle estremità appuntite, compatto, a parte l’apertura rotonda dell’unico abitacolo munito di una falda di nylon che chiaramente poteva essere stretta intorno alla cintola dell’occupante. Una pagaia a due pale era posata sul banco, accanto alla barca. Mi avvicinai e passai la mano sullo scafo di lucida fibra di vetro, con rinforzi e accessori interni di alluminio. Solo una persona nella Compagnia avrebbe potuto fare un lavoro così accurato. Lanciai ad A. Bettik un’occhiata quasi d’accusa. L’androide annuì.

«Si chiama kayak» disse Aenea, passando anche lei la mano sullo scafo levigato. «Un antico modello terrestre.»

«Ho visto delle variazioni sul tema» replicai, per niente impressionato. «Su Hyperion, i ribelli dell’Artiglio di ghiaccio di Ursa usavano piccole barche simili a questa.»

Aenea accarezzava ancora lo scafo, concentrata, come se non avessi aperto bocca. «Ho chiesto ad A. Bettik di fabbricarlo per te» disse. «Ha lavorato qui per varie settimane.»

«Per me» ripetei debolmente. Sentii una stretta allo stomaco: avevo capito che cosa stava per accadere.

Aenea si avvicinò. Si trovava proprio sotto la luce sospesa e le ombre sotto gli occhi e gli zigomi la facevano sembrare più vecchia dei suoi sedici anni. «Non abbiamo più la zattera, Raul.»

Sapevo a quale zattera si riferiva: quella che ci aveva trasportato per molti pianeti e che era stata fatta a pezzi nell’imboscata dove per poco non morivamo tutti, su Bosco Divino. La zattera che ci aveva trasportato sul fiume sotto i ghiacci perenni di Sol Draconis Septem e fra i deserti di Hebron e di Qom-Riyadh e per il pianeta oceanico Mare Infinitum. Sapevo a quale zattera Aenea si riferiva. E sapevo che cosa significava la barca.

«Allora devo ripercorrere con questa barca il percorso che abbiamo seguito per giungere qui?» Alzai la mano, come per toccare il kayak, ma non completai il gesto.

«No, non lo stesso percorso» disse Aenea. «Ma un percorso lungo il fiume Teti. Toccando pianeti diversi. Quanti ne occorreranno per trovare la nave.»

«La nave?» ripetei. Avevamo lasciato la nave spaziale del console nascosta in fondo a un fiume, impegnata ad autoripararsi dai danni subiti nella fuga dalla Pax, su un pianeta di cui non conoscevamo il nome e la dislocazione.

La mia giovane amica annuì: le ombre sotto i suoi occhi sparirono e tornarono a formarsi. «Avremo bisogno di quella nave, Raul. Se sei d’accordo, porta questo kayak lungo il fiume Teti, ritrova la nave e poi torna con quella sul pianeta dove A. Bettik e io saremo ad aspettarti.»

«Un pianeta nello spazio della Pax?» Lo stomaco mi si strinse ancora di una tacca, al pensiero dei pericoli insiti in quella semplice frase.

«Sì.»

«Perché io?» Lanciai verso A. Bettik un’occhiata piena di significato. Pensai: "Perché mandare un essere umano, il tuo migliore amico, dove potrebbe andare l’androide?". Me ne vergognai e abbassai lo sguardo.

«Sarà un viaggio pieno di pericoli» disse Aenea. «Sono convinta che ce la farai, Raul. Confido che troverai la nave e poi noi.»

Lasciai cadere le spalle. «D’accordo» sospirai. «Ora torniamo nel punto dove siamo usciti dal teleporter?» Fuggendo da Bosco Divino, eravamo sbucati in un piccolo torrente nelle vicinanze del capolavoro del Vecchio Architetto, la Casa sulla Cascata. Distava da lì un terzo del continente.

«No» disse Aenea. «Più vicino. Sul Mississippi.»

«D’accordo» ripetei. Avevo sorvolato il Mississippi. Si trovava a circa duemila chilometri da lì. «Quando parto? Domani?»

Aenea mi toccò il polso. «No» disse, in tono stanco ma fermo. «Stasera. Subito.»

Non protestai. Non discussi. Senza aprire bocca, presi la prua del kayak; A. Bettik prese la poppa, Aenea sorresse il centro e insieme, nella sera del deserto sempre più buia, portammo sulla navetta quel maledetto catorcio.

3

Il Grande Inquisitore era in ritardo.

Il controllo del traffico aerospaziale del Vaticano deviò il veicolo elettromagnetico (VEM) dell’Inquisitore in uno spazio aereo in genere chiuso, nei pressi dello spazioporto, interruppe tutto il traffico aereo nel lato est del Vaticano e tenne in orbita d’avvicinamento finale un robocargo da trentamila tonnellate, finché la vettura non sorvolò l’angolo sudest della griglia di atterraggio.

Nel veicolo elettromagnetico superblindato, il Grande Inquisitore, sua eminenza il cardinale John Domenico Mustafa, non guardò dal finestrino né dai videomonitor il piacevole spettacolo del Vaticano in avvicinamento, con le mura soffuse di rosa per la luce del mattino, e neppure l’autostrada a venti corsie, piena di traffico, che in basso superava il ponte Vittorio Emanuele e scintillava come un fiume illuminato dal sole per i raggi riflessi dai parabrezza e dalle capote a bolla. L’attenzione del Grande Inquisitore era concentrata unicamente sulle ultime informazioni dei servizi segreti che scorrevano sul suo comlog.