Выбрать главу

Avevo pensato che A. Bettik ci avrebbe accompagnato nel posto da dove avrei preso il largo, ma Aenea disse che l’androide sarebbe rimasto nel comprensorio, così sprecai altri venti minuti per cercarlo e salutarlo.

«La signorina Aenea dice che a tempo debito ci incontreremo di nuovo» dichiarò A. Bettik «perciò confido che ci rivedremo, signor Endymion.»

«Raul» protestai per la millesima volta. «Chiamami Raul.»

«Naturalmente» disse A. Bettik, con quel sorriso appena accennato che suggeriva l’insubordinazione.

«Vaffanculo!» lo rimbeccai e gli tesi la mano. A. Bettik la strinse. Provai l’impulso di abbracciare il nostro vecchio compagno di viaggio, ma sapevo che l’avrei messo in imbarazzo. Gli androidi non erano programmati per essere compassati e ossequiosi — in fin dei conti, erano esseri organici viventi, non macchine — ma tra l’educazione RNA e la lunga pratica, erano creature inguaribilmente formali. A. Bettik, almeno, lo era.

E poi ce ne andammo, Aenea e io; portammo la navetta fuori dell’hangar nella notte del deserto e decollammo col minor rumore possibile. Avevo detto addio agli apprendisti e ai collaboratori della Compagnia, tutti quelli che avevo trovato, ma era tardi e le persone erano sparse nei loro dormitori, tende e ripari. Mi auguravo di imbattermi di nuovo in alcuni di loro — soprattutto quelli delle squadre di costruzione, con cui avevo lavorato per quattro anni — ma in realtà non ero molto convinto che la mia speranza si sarebbe realizzata.

La navetta poteva raggiungere da sola la nostra destinazione — Aenea aveva inserito nel sistema di guida una serie di coordinate — ma lasciai i comandi sul semiautomatico per fingere di essere occupato durante il viaggio. Sapevo che dovevamo percorrere circa 1500 chilometri. Da qualche parte lungo il Mississippi, aveva detto Aenea. La navetta avrebbe potuto coprire la distanza in dieci minuti, se si fosse messa in orbita bassa, ma volevamo risparmiare l’energia sempre più scarsa e le scorte di carburante; così, estese al massimo le ali, mantenemmo velocità subsonica a una comoda quota di diecimila chilometri ed evitammo di morfizzare di nuovo lo scafo fino al momento dell’atterraggio. Ordinammo alla navetta di stare in silenzio se non c’erano comunicazioni importanti (molto tempo prima, dal mio comlog avevo riversato nel nucleo IA della navetta la personalità dell’astronave del console) e poi ci accomodammo, nella luce rossastra degli strumenti di bordo, per parlare e guardare il continente buio che passava sotto di noi.

«Ragazzina» dissi «come mai tanta fretta?»

Aenea mi rispose con quel gesto d’imbarazzo che le avevo visto fare per la prima volta quasi cinque anni prima. «Pareva importante mettere in moto la faccenda» disse poi, con voce pacata, quasi fredda, prosciugata della vitalità e dell’energia che avevano spinto l’intera Compagnia ad assecondarla. Forse ero l’unica persona vivente in grado di riconoscere quel tono: Aenea pareva sul punto di piangere.

«Non può essere così importante» dissi. «Costringermi a partire nel cuore della notte…»

Aenea scosse la testa e per un momento guardò dal finestrino, nel buio. Mi resi conto che piangeva. Quando infine si girò, alla tenue luce degli strumenti i suoi occhi parevano umidi e arrossati. «Se non parti stanotte» disse «mi perderò di coraggio e ti chiederò di restare. Se resti, mi perderò di coraggio di nuovo e rimarrò sulla Terra… non farò mai ritorno.»

Provai l’impulso di prenderle la mano e invece continuai a tenere la mia zampaccia sull’onnicomando. «Ehi» dissi «possiamo fare ritorno insieme. Per me non ha senso che io vada da una parte e tu dall’altra.»

«Ha senso, invece» disse Aenea, così piano che fui costretto a sporgermi per capire le parole.

«A riprendere la nave potrebbe andare A. Bettik» dissi. «Tu e io possiamo restare sulla Terra finché non saremo pronti a fare ritorno…»

Aenea scosse la testa. «Non sarò mai pronta a fare ritorno, Raul. La sola idea mi spaventa a morte.»

Pensai alla caccia disperata che ci aveva spinti a fuggire da Hyperion nello spazio della Pax, evitando al pelo navi torcia e incrociatori della Pax, marines, guardie svizzere e Dio sa cos’altro, compresa la bastarda creatura infernale che era quasi riuscita a ucciderci, su Bosco Divino, e dissi: «Mi sento come te, ragazzina. Forse dovremmo restare davvero sulla Terra. Qui non possono raggiungerci».

Aenea mi guardò e riconobbi l’espressione: non semplice testardaggine, ma la chiusura di ogni discussione in una faccenda già decisa.

«E va bene» dissi. «Ma ancora non mi hai spiegato perché A. Bettik non può prendere il kayak e ricuperare la nave, mentre io faccio ritorno con te via teleporter.»

«Sì, l’ho spiegato. Ma tu non stavi a sentire.» Cambiò posizione sul sedile. «Raul, se tu parti e ci accordiamo di incontrarci in un certo momento in un certo punto dello spazio della Pax, io sono obbligata a varcare il teleporter e a fare ciò che devo fare. E ciò che devo fare dopo devo farlo da sola.»

«Aenea…»

«Sì?»

«È una vera stupidaggine. Lo sai?»

Aenea rimase in silenzio. Sotto di noi, sulla sinistra, in un punto dell’antico Kansas, in quel momento si vedeva un cerchio di fuochi di bivacco. Fissai quelle piccole luci fra tutto quel buio. «Hai idea di quale esperimento i tuoi amici alieni fanno laggiù?»

«No. E non sono miei amici alieni.»

«Cosa non sono? Amici o alieni?»

«Né amici né alieni» rispose Aenea. Mi resi conto che quella era la sua più precisa definizione delle intelligenze quasi divine che avevano trafugato la Vecchia Terra… e rapito anche noi, avevo a volte l’impressione: mi pareva che ci avessero imbrancati come bestiame e spinti a varcare un teleporter dopo l’altro.

«Ti dispiace dirmi qualche altra cosa su questi non amici non alieni? In fin dei conti, qualcosa potrebbe andare storto. Potrei non presentarmi all’appuntamento. Prima di partire, gradirei conoscere il segreto di chi ci ospita.»

Rimpiansi subito di avere detto quelle parole. Aenea si ritrasse come se l’avessi schiaffeggiata.

«Scusa, ragazzina.» Stavolta misi la mano sulla sua. «Non dicevo sul serio. Sono solo arrabbiato, ecco.»

Aenea annuì e vidi di nuovo le lacrime nei suoi occhi.

Mi presi mentalmente a calci. «Tutti, nella Compagnia, erano sicuri che gli alieni fossero benevole creature quasi divine. Parlavano di "Leoni e Tigri e Orsi", ma pensavano "Gesù e Jahweh ed E.T.". Erano sicuri che, quando fosse giunto il momento di chiudere la Compagnia, gli alieni sarebbero comparsi e ci avrebbero guidato nella Pax in una grande nave. Niente pericolo. Niente confusione. Niente casino.»

Aenea sorrise, ma aveva ancora gli occhi lucidi. «Gli esseri umani hanno sempre aspettato che Gesù e Jahweh ed E.T. salvassero loro il culo fin da quando se lo coprivano con pelli d’orso e uscivano dalle caverne. Devono continuare ad aspettare. Questi sono affari nostri, lotta nostra; e dobbiamo pensarci noi stessi.»

«Noi stessi saremmo tu e io e A. Bettik contro ottocento malcontati miliardi di fedeli risorti?» replicai piano.

Aenea ripeté quel gesto aggraziato. «Già» rispose. «Per ora.»

Al nostro arrivo, non solo era ancora buio, ma pioveva a dirotto: una gelida pioggia torrenziale da fine autunno. Il Mississippi era un fiume notevole, uno dei più grandi della Vecchia Terra; la navetta lo sorvolò in cerchio e atterrò in una piccola città sulla riva ovest. Vidi tutto questo sullo schermo a risalto d’immagine: dal finestrino avrei visto solo buio e pioggia.

Superammo un’alta collina coperta di alberi spogli, incrociammo un’autostrada deserta che scavalcava il Mississippi su uno stretto ponte e atterrammo in un’area lastricata a circa cinquanta metri dal fiume. La città si allontanava in una valle fra montagne alberate e dal finestrino vedevamo piccole costruzioni di legno, ampi magazzini di mattoni e alcuni edifici più alti nei pressi del fiume, che forse erano silos di granaglie. Edifici di questo tipo erano stati comuni nel XIX, XX e XXI secolo in quella parte della Vecchia Terra: non riuscivo a immaginare perché quella città non avesse subito i terremoti e gli incendi delle Tribolazioni, né perché Leoni e Tigri e Orsi l’avessero ricostruita, se l’avevano ricostruita. Non c’era segno di popolazione nelle strette vie né tracce di calore nella banda a infrarossi, sia di creature viventi sia di autoveicoli con i loro motori a scoppio; ma, a ben pensarci, erano quasi le quattro di una notte gelida e piovosa. Nessuno con un grammo di sale in zucca sarebbe uscito di casa, con un tempaccio pidocchioso e puzzolente come quello.