Il significato di quella visione bizzarra mi fu subito chiaro, perché vi riconobbi la medesima regolarità che avevo già osservato nelle galassie: tutto, ogni atomo, ogni piccolo aggregato gassoso, era pervaso di struttura e di significato.
Nulla era casuale nell’orientamento degli atomi, nella direzione della loro rotazione, nelle loro interconnessioni. Era come se tutto l’universo fosse una sorta di biblioteca in cui era immagazzinata la saggezza collettiva di quell’antica variante della specie umana. Ogni minima particella di materia era stata esaminata, sfruttata, catalogata. Sembrava proprio che lo scopo ultimo dell’intelligenza fosse quello che Nebogipfel aveva previsto.
Comunque, si trattava di molto di più che di una raccolta passiva e polverosa d’informazioni. Tutt’intorno a me percepivo la vitalità: era come se l’immane struttura della materia fosse pervasa di coscienza.
La mente permeava il tessuto stesso dell’universo: mi sembrò di vedere il pensiero e la consapevolezza spazzarlo interamente a ondate. Rimasi sconcertato dalla natura sconfinata di quel processo, a cui non potevano essere paragonati né le opere limitate compiute dalla mia specie sulla crosta di un pianeta insignificante, né la Sfera dei Morlock, né le attività a cui si erano dedicati i Costruttori in una singola galassia fra milioni di altre.
In quell’universo, invece, la mente operava al livello dell’infinito.
Finalmente vidi e compresi il significato e lo scopo della vita infinita ed eterna.
L’universo era infinito nel tempo e nello spazio, e la mente, anch’essa infinita nel tempo, oltre ad avere assunto il controllo di tutta la materia e di tutte le forze, aveva immagazzinato un’infinità d’informazioni.
In quell’universo, la mente era onnisciente, onnipotente e onnipresente. Mediante la loro sfida audace agli inizi del tempo, i Costruttori avevano raggiunto il loro ideale: avevano trasceso il finito e colonizzato l’infinito.
Gli atomi e le forze scomparvero allorché concentrai di nuovo l’attenzione sulle costellazioni e sul cosmo infinitamente luminoso. Scomparso l’Osservatore, ero rimasto solo: una sorta di nucleo di coscienza disincarnata, che ruotava lentamente.
Profonda e infinita, la luce stellare mi circondava. Ero consapevole della pochezza del tutto e di me stesso, nonché dell’irrilevanza delle mie preoccupazioni meschine. Un universo infinito ed eterno non aveva centro, né poteva avere inizio e fine. Ogni evento e ogni punto erano resi identici gli uni agli altri dal contesto illimitato in cui erano collocati. In un universo infinito, ero diventato infinitesimale.
Benché non fossi mai stato molto incline alla poesia, ricordai quel verso in cui Shelley paragonava la vita a una cupola di vetro multicolore bagnata dalla luce bianca dell’eternità… Ebbene, ormai non partecipavo più alla vita: ero stato privato del corpo, persino della lieve illusione della materia, ed ero immerso, forse per sempre, nella bianca luminosità descritta da Shelley.
Per qualche tempo, provai una sensazione peculiare di pace. Quando mi ero reso conto per la prima volta delle conseguenze della macchina temporale sullo svolgimento della storia, mi ero convinto che fosse un’invenzione incomparabilmente malvagia perché provocava arbitrariamente la distruzione o la distorsione delle storie: bastava una minima azione da parte mia sulle leve di comando per impedire la nascita di milioni di anime umane.
Finalmente, invece, avevo capito che la macchina del tempo non aveva affatto distrutto le storie, bensì le aveva create. Nella molteplicità esistevano tutte le storie possibili, l’una adiacente all’altra, in un catalogo infinito di possibilità: ogni storia possibile, con tutto il suo carico di mente, di amore e di speranza esisteva da qualche parte nella molteplicità.
Tuttavia, non fui commosso tanto dalla realtà della molteplicità, quanto da ciò che essa significava per il destino dell’umanità.
Da quando avevo letto Darwin per la prima volta, mi era sempre sembrato che l’umanità fosse in conflitto tra le aspirazioni dell’anima, infinitamente elevate, e la meschinità dell’esistenza fisica, che alla fine l’avrebbe annientata. Avevo interpretato la storia degli Eloi sia come la distruzione finale dei sogni umani a causa del vicolo cieco dell’evoluzione, dell’eredità bestiale in noi; sia come la riduzione del dominio umano del pianeta a un fugace ma glorioso barlume d’intelletto.
Inoltre, tale conflitto, insito nella natura umana, si era riflesso nel mio conflitto interiore. Se davvero, come aveva detto Nebogipfel, avevo provato una sorta di repulsione nei confronti del corpo, allora forse la mia consapevolezza eccessiva di tale conflitto atavico ne era alla radice.
Le mie concezioni avevano sempre oscillato fra una cupa disperazione, nutrita dalla ripugnanza nei confronti dell’involucro bestiale della mente, e un atteggiamento utopico eccessivamente indulgente e alquanto sciocco, vale a dire l’illusione che un giorno l’umanità si sarebbe come destata da un incubo di massa e avrebbe riorganizzato la società in base ai principi della logica, della giustizia e della scienza.
Ebbene, la scoperta, o la creazione, e la colonizzazione della storia ultima, avevano cambiato tutto: lì, l’umanità aveva finalmente prevalso sulle proprie origini e sulla degradazione della selezione naturale; lì, non sarebbe mai regredita all’oblio del mare primevo e senza coscienza da cui era emersa. Il futuro, invece, era diventato infinito: un’ascesa in un’atmosfera di storie infinite.
Sentivo di essere finalmente uscito dalla tenebra della disperazione evolutiva, per immergermi nella luce della saggezza infinita.
7
Emersione
Forse chi ha seguito la mia narrazione fino a questo punto non rimarrà sorpreso nello scoprire che il mio stato d’animo di accettazione elegiaca non durò a lungo.
Sforzandomi di osservare e di ascoltare per cogliere la minima alterazione nel guscio luminoso che mi circondava, percepii soltanto la luce intollerabile e il silenzio infinito.
Ero una pagliuzza disincarnata, presumibilmente immortale, all’interno dell’ambiente artificiale più grande che fosse mai stato creato: un universo in cui le forze e le particelle erano del tutto intimamente connesse alla mente. Era magnifico, ma anche terribile, inumano, raggelante, perciò uno sgomento annichilente calò su di me.
Mi trovavo forse in una condizione che non apparteneva all’essere né al non essere? In tal caso, non avevo ancora conseguito la pace dell’eternità. Conservavo ancora un’anima umana, con tutto il desiderio di conoscenza e d’azione che aveva sempre fatto parte di essa. Ero ancora tanto imbevuto della cultura occidentale, che in breve tempo ne ebbi abbastanza di quella contemplazione disincarnata.
Trascorso un periodo di tempo incommensurabile, mi accorsi che la luminosità del cielo non era assoluta. Alla periferia del mio campo visivo, notai una sorta di offuscamento, d’incupimento.
Durante quella che mi sembrò un’ attesa tanto lunga da poter essere paragonata alle ere geologiche, l’offuscamento divenne maggiormente percettibile: era una sorta di cerchio intorno al mio campo visivo, come se, dall’interno di una caverna, stessi guardando fuori. Al centro di quella prospettiva spettrale individuai una nube irregolare che si distingueva dallo sfondo luminoso, costituita di forme vaghe: sbarre e dischi, che, come fantasmi, velavano le stelle. In disparte notai un cilindro verde puro.
Con veemente impazienza, mi domandai che cosa fosse quell’irruzione di ombre nel mezzogiorno eterno dell’Ottimità.
Mentre i confini del mio campo visivo diventavano più nitidi, accentuando l’impressione di guardare fuori dall’ingresso di una grotta, mi domandai se ciò non fosse dovuto all’affiorare di qualche ricordo del paleocene. Quanto alle forme spettrali, mi sembrò di averle già viste: la loro disposizione mi era nota, anche se per qualche tempo non riuscii a riconoscerla, in quel contesto alieno.