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Finalmente, riconobbi le sbarre e i dischi che intravedevo sullo sfondo delle galassie e delle costellazioni: si trattava di una gabbia d’ottone e di alcuni cronometri. Era la prima macchina del tempo, che credevo mi fosse stata sottratta per essere smantellata, e fosse poi rimasta distrutta durante l’assalto tedesco a Londra, nel 1938.

Rapidamente, l’immagine si concretizzò: la gabbia d’ottone scintillava; i quadranti dei cronometri, le cui lancette turbinavano, erano spruzzati di polvere; le sbarre di quarzo brillavano della luce verde della plattnerite di cui erano cosparse. Abbassando lo sguardo, vidi due grossi cilindri scuri e due oggetti pallidi e villosi, articolati: erano le mie gambe, infilate nei calzoni tropicali, e le mie mani, posate sulle leve di comando.

Infine compresi che cosa delimitava il mio campo visivo: le mie orbite, il mio naso, le mie guance. Ancora una volta guardavo il mondo esterno dall’interno della più tenebrosa delle grotte: il mio cranio.

Mi sembrò di venire calato all’interno del mio corpo. La mia coscienza si collegò agli arti. Sentii le leve fredde e solide nelle mie mani, nonché un lieve prurito di sudore sulla fronte. Probabilmente fu un’esperienza simile alla ripresa di conoscenza dopo l’oblio indotto dal cloroformio. Ritornai lentamente in me stesso, finché sentii l’ondeggiamento e provai la sensazione di precipitare che caratterizzavano il viaggio temporale.

Del tutto immersa in un’oscurità impenetrabile, la macchina del tempo oscillava sempre più lentamente: stava rallentando. Nel tentativo di guardare attorno, fui ricompensato dalla sensazione della testa sostenuta dal collo: dopo l’esperienza della coscienza disincarnata, fu come ruotare un cannone. Scoprii così che restavano soltanto vaghe tracce della storia dell’Ottimità: qualche grappolo di galassie, qualche scheggia luminosa di materia stellare.

In quell’ultimo istante prima che la mia connessione intangibile venisse troncata definitivamente, rividi il volto rotondo e solenne, dagli immensi occhi pensosi. Poi l’Osservatore scomparve insieme a tutto il suo universo, e io, con un empito di gioia primitiva e selvaggia, tomai ad essere completamente me stesso.

La macchina del tempo si fermò con un sussulto e si rovesciò, scagliandomi a capofitto nell’oscurità più densa.

Uno schianto di tuono mi destò. Una pioggia brutale mi percosse sistematicamente la testa e la camicia tropicale, infradiciandomi in un istante: fu un’ottima accoglienza per il ritorno alla realtà fisica.

Giacevo sull’erba morbida e bagnata di un vialetto, fra cespugli le cui foglie danzavano sferzate dalla pioggia, vicino alla macchina del tempo rovesciata, avvolta in una nuvoletta di gocce che rimbalzavano. Da vicino giungeva il fragore di un corso d’acqua tempestato dal temporale.

Mi alzai per guardare attorno. Non lontano, sullo sfondo del cielo grigio carbone, si stagliava la sagoma di un edificio. Un fioco luccichio verde sotto la macchina rovesciata attirò la mia attenzione: proveniva da un comunissimo flacone graduato da otto once, lungo circa quindici centimetri, che evidentemente si era staccato dalla gabbia, cadendo sull’erba, e che conteneva, ovviamente, plattnerite in polvere.

Nel curvarmi a raccogliere il flacone, sentii chiamare il mio nome da una voce fioca, quasi del tutto soffocata dal rumore della pioggia che cadeva sull’erba.

Sbalordito, mi volsi. A meno di tre metri da me stava un individuo poco più alto di un bambino, con la lunga pelliccia liscia incollata dalla pioggia alla pelle pallida, il quale mi fissava con grandi occhi rosso-grigi.

— Nebogipfel…?

Allora nella mia mente disorientata si chiuse un circuito.

Mi volsi a osservare di nuovo la sagoma dell’edificio, e vidi il balcone con la ringhiera di ferro, la cucina con una finestrina socchiusa, e il laboratorio…

Era la mia casa: la macchina del tempo mi aveva portato sul vialetto posteriore in pendenza fra la casa stessa e il Tamigi. Dopo tutto quello che mi era accaduto, ero tornato a Richmond!

8

Un cerchio si è chiuso

Ancora una volta, com’era già accaduto tanti cicli storici prima, Nebogipfel e io percorremmo Petersham Road fino a casa mia. La pioggia frusciava sui ciottoli. Era quasi completamente buio: l’unica luce proveniva dal flacone di plattnerite, che brillava come una fioca lampadina elettrica, gettando un riflesso torbido sul volto del Morlock.

Con i polpastrelli, sfiorai la trama delicata e familiare della ringhiera. Avevo creduto di non poter rivedere mai più la facciata elegante, le colonne del portico, le finestre buie della mia casa.

— Hai di nuovo entrambi gli occhi — sussurrai a Nebogipfel.

Nell’osservarsi il corpo ricreato, Nebogipfel aprì le mani, facendo scintillare la pelle pallida alla luce della plattnerite: — Non ho più bisogno di protesi, adesso che sono stato ricostruito, come lo sei stato tu.

Mi posai le mani sul petto. Il tessuto della camicia era ruvido a contatto con le palme, e lo sterno era duro. Non soltanto mi sentivo solido, bensì sentivo, soprattutto, di essere ancora me stesso. Con ciò intendo dire che la mia storia personale aveva una continuità: un unico, luminoso sentiero della memoria conduceva a ritroso, attraverso la complessità della molteplicità della storia, sino ai giorni semplici della mia fanciullezza. Però non avrei mai più potuto essere la stessa persona, dopo essere stato scomposto nella storia dell’Ottimità e riassemblato in quel mondo. Mi chiesi quanto restasse in me dell’universo luminoso dell’Ottimità.

— Dimmi, Nebogipfel… Ricordi tutto di quello che è successo dopo che abbiamo superato il confine dell’inizio del tempo, con lo spazio luminoso, e così via?

— Ricordo tutto. — Gli occhi del Morlock erano neri. — Tu no, forse?

— Non ne sono sicuro… Ormai mi sembra tutto una sorta di sogno: soprattutto qui, sotto questa fredda pioggia inglese.

— Ma la storia dell’Ottimità è la realtà — mormorò Nebogipfel. — Questa — con le mani, accennò all’innocente Richmond — e le substorie parziali dell’Ottimità… Tutto questo è sogno.

— Be’, questo è abbastanza reale… — Sollevai il contenitore della plattnerite: era un comunissimo flacone per medicinali, chiuso con un tappo di gomma. È inutile dire che non avevo la più pallida idea di quale fosse la sua provenienza, né di come fosse stato collocato nella macchina del tempo. — È proprio una bella soluzione, vero? È come la chiusura di un cerchio. — Avanzai di un passo verso la porta. — Credo che dovresti nasconderti, adesso, prima che io suoni.

In silenzio, Nebogipfel indietreggiò fino a scomparire nell’ombra del portico.

Suonai il campanello.

All’interno della casa, una porta fu aperta. Un grido attutito: — Arrivo! — fu seguito da un rumore di passi pesanti e impazienti sulle scale. La chiave girò nella serratura, la porta si aprì con un cigolio.

Una candela dalla fiamma vacillante in un candeliere d’ottone fu protesa all’esterno. Un giovane dal viso largo e rotondo mi scrutò con gli occhi gonfi di sonno. Aveva ventitré o ventiquattro anni, e indossava una veste da camera lisa e stazzonata sopra una camicia da notte tutta spiegazzata. I capelli marrone topo erano irti ai lati della testa stranamente larga. — Sì? — chiese, con voce tagliente. — Lo sa che sono passate le tre del mattino?

Benché non mi fossi preparato nessun discorso, cominciai subito a parlare rapidamente. Ancora una volta fui sottoposto allo strano, inquietante shock del riconoscimento. Credo che nessun uomo del mio secolo avrebbe mai potuto abituarsi a incontrare se stesso, per quante volte avesse ripetuto l’esperienza. Inoltre, l’incontro fu particolarmente straziante perché non si trattava soltanto di un me stesso più giovane, bensì di un diretto antenato di Mosè: fu come ritrovare un fratello minore che credevo perduto.