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Naturalmente non ricevetti alcuna lama, ma la cosa non mi stupì.

Rimasto nuovamente solo, mi spogliai e mi lavai poco alla volta, sbarazzandomi del sudore di alcuni giorni, nonché delle restanti tracce di sangue morlock. Approfittai dell’occasione per lavare anche gli indumenti intimi e la camicia.

Così, la mia vita nella Gabbia di Luce divenne un poco più civile. Si può avere un’idea dell’ambiente in cui vivevo immaginando l’arredamento di una camera d’albergo a buon mercato gettato in mezzo alla pista di un’immensa sala da ballo. Radunando la sedia, i vassoi e le coperte, formai una sorta di nido tranquillo in cui non mi sentii più del tutto indifeso. Con la giacca arrotolata come cuscino, e la testa e le spalle sotto la sedia, dormivo protetto dalla mia piccola fortezza. Riuscivo quasi sempre a ignorare le stelle che si vedevano attraverso il pavimento, ripetendomi che si trattava soltanto di una sofisticata illusione, però talvolta l’immaginazione mi tradiva, e allora mi sentivo come sospeso su un baratro infinito, sostenuto soltanto da quel pavimento irreale.

Naturalmente tutto ciò era illogico, ma sono un essere umano, e debbo assecondare le necessità e le paure istintive della mia natura.

Intanto, Nebogipfel mi osservò, non avrei saputo dire se con curiosità o con perplessità, o forse con il distacco con cui avrei osservato il comportamento di un uccello intento a costruirsi il nido.

Così trascorsero i quattro o cinque giorni successivi, durante i quali mi sforzavo di spiegare a Nebogipfel il funzionamento della macchina del tempo, e cercavo intanto di estorcergli subdolamente qualche dettaglio sulla direzione che la storia aveva preso in quel mondo.

Innanzitutto, spiegai le ricerche di fisica ottica che mi avevano fatto intravedere la possibilità del viaggio nel tempo: — È ormai noto, o almeno, lo era nella mia epoca, che la propagazione della luce ha proprietà anomale. La velocità della luce nel vuoto è estremamente elevata, nell’ordine di centinaia di migliaia di miglia al secondo, però si tratta di un numero finito. E ciò che più importa, come hanno dimostrato inequivocabilmente Michelson e Morley pochi anni prima della mia partenza, si tratta di una velocità isotropica…

M’impegnai nella spiegazione di tale concetto. In sostanza, la luce, nel viaggiare attraverso lo spazio, non si comporta come un oggetto materiale, cioè per esempio un treno.

Poniamo un raggio di luce, che proveniente da una stella lontana, incontra la Terra in un momento in cui essa si trova a raggiungerlo: per esempio, in gennaio. Poiché la velocità del pianeta in orbita è di circa settantamila miglia all’ora, se si dovesse misurare dal punto di vista terrestre la velocità del raggio luminoso proveniente dalla stella, ci s’immaginerebbe di dovervi sottrarre settantamila miglia e rotti l’ora.

Diversamente, in luglio, quando la Terra si trova nel punto opposto dell’orbita e va incontro al raggio luminoso, ci si aspetterebbe di dovervi sommare la velocità del pianeta.

Ebbene, sarebbe senza dubbio vero se l’oggetto in movimento fosse un treno a vapore. Michelson e Morley, invece, hanno dimostrato che per la luce delle stelle non vale questo principio. La velocità della luce misurata dal nostro pianeta, sia che quest’ultimo la raggiunga sia che la incontri, è esattamente la stessa!

Queste osservazioni concordavano con il fenomeno che avevo osservato alcuni anni prima a proposito della plattnerite, anche se non avevo pubblicato i risultati dei miei esperimenti. E sulla base di questi ultimi avevo formulato un’ipotesi.

— Non si deve fare altro che affidarsi a un’immaginazione sbrigliata, in particolare riguardo alle dimensioni, per capire quale possa essere la spiegazione. Come si misura la velocità, in definitiva? Soltanto con apparecchi che registrano intervalli in dimensioni diverse: una distanza percorsa nello spazio per mezzo di un semplicissimo metro, e un intervallo di tempo mediante un orologio. Dunque, se accettiamo la prova sperimentale di Michelson e Morley„ dobbiamo considerare la velocità della luce come la quantità fissa, e le dimensioni come variabili. L’universo si organizza in maniera tale da rendere costanti le nostre misurazioni della velocità della luce. Sono arrivato alla conclusione che tutto ciò può essere espresso geometricamente come una torsione delle dimensioni. — Sollevai la mano, formando un angolo retto con il pollice e con due dita. — Se ci troviamo in una struttura a quattro dimensioni… Be’, immagina di ruotarla così — e ruotai il polso — in modo che la lunghezza venga a trovarsi al posto dell’ampiezza, e quest’ultima al posto dell’altezza. Soprattutto, la durata viene a trovarsi al posto di una dimensione spaziale. Capisci? Non è necessario che la trasposizione sia completa, naturalmente: basta che sia parziale per spiegare l’adeguamento di Michelson e Morley. Non ho comunicato a nessuno queste mie riflessioni, perché non godevo di gran fama come teorico. E poi ero riluttante a pubblicare uno studio senza aver prima effettuato una verifica sperimentale. Altri, però, stavano ragionando allo stesso modo: sapevo di Fitzgerald, a Dublino, e di Lorentz, a Leida, e di Henri Poincaré, in Francia. Non passerà molto tempo, nella mia epoca, perché si arrivi a una teoria più completa della relatività delle dimensioni di riferimento. Comunque, sono questi, in sostanza, i principi su cui si basa la mia macchina del tempo — conclusi. — Essa torce intorno a sé lo spazio e il tempo, trasformando quest’ultimo in una dimensione spaziale, in modo tale che ci si può recare nel passato o nel futuro con la stessa facilità con cui si pedala in bicicletta!

Finalmente, mi appoggiai allo schienale della sedia. Considerate le condizioni piuttosto precarie in cui avevo dovuto procedere alla mia esposizione, pensai di essermela cavata proprio bene.

Invece, Nebogipfel non si dimostrò dello stesso parere. Per un poco rimase in piedi immobile, in silenzio, fissandomi attraverso gli occhiali azzurri. Infine replicò: — Sì, ma… come, esattamente?

11

Fuori della gabbia

Trovai molto irritante la reazione del Morlock.

Mi alzai dalla sedia e cominciai a passeggiare intorno alla Gabbia. Mi avvicinai a Nebogipfel, resistendo però all’impulso di mettermi a gesticolare minacciosamente come una scimmia. Mi rifiutai categoricamente di rispondere ad altre domande prima di essere stato condotto a visitare almeno in parte il mondo della Sfera.

— Ascolta… — esordii. — Non credi di essere ingiusto? Dopotutto, ho viaggiato per seicentomila anni allo scopo di visitare il vostro mondo. Finora, però, ho visto soltanto la collina di Richmond, avvolta nell’oscurità, e questo luogo… — indicai con un gesto il buio circostante — e ho dovuto subire il tuo interminabile interrogatorio! Considera la situazione da questo punto di vista, Nebogipfel… So che vuoi un resoconto completo del mio viaggio nel tempo, nonché dello svolgimento della storia a cui ho assistito fino al vostro presente. Ma come posso cominciare il racconto se non ne comprendo la conclusione? Non parliamo, poi, dell’altra dimensione di storia che ho conosciuto… — E m’interruppi, nella speranza di averlo convinto.