La folla di Morlock dal volto esangue, l’assenza di colori, l’orizzonte piatto, la velocità innaturale con cui mi muovevo in quel luogo bizzarro, e soprattutto l’illusione di essere sospeso al di sopra di un pozzo infinito di stelle, contribuivano a creare una parvenza di sogno, che però veniva puntualmente smentita dal puzzo nauseabondo di un Morlock particolarmente curioso che avvicinandosi mi riportava alla realtà.
Non era un sogno: sapevo di essere isolato e sperduto in quel mare di Morlock, e mi trovai ancora una volta costretto a lottare per mantenere l’equilibrio, per non incespicare, per non cominciare a tirare pugni sui volti curiosi che mi si accalcavano intorno.
La totale assenza di spazi chiusi e la constatazione che i Morlock della Sfera erano privi d’inibizioni nel camminare, nel conversare, nel consumare lo stesso cibo sciapo che era stato offerto a me, insomma, nello svolgere tutte le loro misteriose faccende, mi indussero alla conclusione che non avevano bisogno d’intimità come noi la concepiamo.
Molti di loro sembravano immersi nel lavoro, benché il tipo di attività mi risultasse del tutto oscura: con le dita sottili e sinuose toccavano schermi di vetro azzurro e luminoso incassati in alcuni divisori, oppure parlavano rivolti a essi, e in tutta risposta sugli schermi comparivano e scorrevano schemi, figure o testi. Alcune versioni ancora più sofisticate erano in grado di proiettare nell’aria immagini tridimensionali, che riproducevano non avrei saputo dire che cosa. Quando i Morlock impartivano determinati comandi, le immagini tridimensionali ruotavano su se stesse, si aprivano a mostrare l’interno, oppure si scomponevano in serie di cubi fluttuanti di luce colorata.
Come si può immaginare, tutte queste attività erano immerse nel liquido e incessante chiacchiericcio della lingua aliena dei Morlock.
A un certo punto, dal pavimento spuntò un divisorio sottile simile a una colonna di mercurio e arrivò fino a un metro e venti d’altezza, corredato da tre onnipresenti schermi azzurri. Mi abbassai per guardare attraverso il pavimento trasparente, ma non vidi alcunché sotto la superficie: né un contenitore di qualche forma, né un congegno meccanico. Sembrava apparso dal nulla. — Da dove viene? — domandai alla mia guida.
Dopo una breve riflessione per scegliere le parole più adatte, Nebogipfel rispose: — La Sfera possiede una Memoria, ed è dotata di macchine che le consentono di immagazzinarla. E la forma di questi blocchi di dati — spiegò, riferendosi ai divisori — è contenuta nella Memoria della Sfera, in modo da poter essere recuperata in questa forma materiale ogniqualvolta lo si desidera.
Nebogipfel richiamò altri divisori, uno dei quali spuntò dal pavimento sostenendo un vassoio con cibo e acqua, che sembrò appena servito da un maggiordomo invisibile!
Quei blocchi che uscivano del pavimento uniforme e spoglio colpirono molto la mia immaginazione; mi rammentarono la teoria platonica del pensiero spiegata da alcuni filosofi, secondo cui per ogni oggetto esiste, su qualche piano della realtà, una forma ideale: un’essenza della sedia, o della condizione di tavolo, e così via, talché quando un oggetto viene fabbricato nel nostro mondo, si attinge ai modelli immagazzinati nel mondo superiore platonico.
Ebbene, mi trovavo in un universo platonico materializzato: l’immane Sfera che avvolgeva il sole era interamente pervasa da una Memoria, artificiale ma pressoché divina, di cui stavo visitando gli ambienti, insieme alla mia guida, e in cui erano immagazzinati gli Ideali di tutti gli oggetti che si potevano desiderare, o almeno, che potevano essere desiderati dai Morlock.
Quanto sarebbe stato comodo riuscire a fabbricare e a dissolvere strumenti e macchine a piacere! Mi resi conto che la mia casa spaziosa di Richmond, piena di spifferi, avrebbe potuto essere ridotta a un solo ambiente. Al mattino, avrei potuto far svanire l’arredamento della camera da letto nel tappeto, per poi sostituirlo con quello del bagno, e quindi con quello della cucina. Come per magia, al momento di iniziare la mia giornata di lavoro, avrei potuto richiamare dalle pareti e dal soffitto le apparecchiature del laboratorio. E infine, la sera, avrei potuto recuperare la sala da pranzo, con tanto di tappezzeria, caminetto e tutte le comodità, compreso il tavolo da pranzo con la cena già servita!
La conseguenza più immediata sarebbe stata la scomparsa in un batter d’occhio di professioni quali il muratore, l’idraulico, il carpentiere e simili. I proprietari degli Ambienti Intelligenti non avrebbero dovuto fare altro che stipendiare domestici a ore (anche se forse l’Ambiente avrebbe potuto occuparsi persino delle pulizie!), e probabilmente le memorie meccaniche avrebbero potuto essere aggiornate per rimanere al passo con le ultime tendenze…
E la mia immaginazione si sbizzarrì in altre ipotesi, senza più alcun freno.
Mi stancai presto e Nebogipfel mi condusse in una zona meno affollata, benché tutt’intorno, a una certa distanza, vi fossero Morlock ovunque; battendo con un piede sul pavimento, ne fece emergere una struttura dalle gambe massicce, alta circa un metro e mezzo e sormontata da un riparo che poggiava su quattro sostegni; all’interno vidi un rotolo di coperte e un vassoio carico di cibo. Mi sistemai, lieto di disporre per la prima volta di un riparo da quando mi trovavo nella Sfera, e ringraziai Nebogipfel per la sua gentilezza. Dopo avere pasteggiato con acqua e un po’ di formaggio verde, mi tolsi gli occhiali, trovandomi subito immerso nell’oscurità perenne del mondo dei Morlock, mi addormentai con la testa posata sopra una coperta arrotolata.
Quello strano rifugio fu la mia casa nei giorni successivi, durante i quali Nebogipfel mi condusse a visitare la sala-città dei Morlock. Subito dopo il mio risveglio, Nebogipfel faceva rientrare immediatamente il rifugio nel pavimento, e ogni volta che sostavamo lo faceva ricomparire, talché non avevamo bisogno di portare alcun bagaglio. Poiché avevo notato che i Morlock non dormivano, pensai che il mio strano comportamento incuriosisse notevolmente gli abitanti della Sfera — come quello di un orango agli occhi di un uomo, suppongo — e forse si sarebbero stretti attorno a me, mentre dormivo, per scrutarmi con i loro visetti rotondi, se Nebogipfel non mi fosse rimasto accanto per scoraggiare simili attenzioni.
13
Come vivevano i Morlock
Nei giorni in cui Nebogipfel mi condusse a visitare il mondo dei Morlock, non incontrammo mai una parete, una porta, o una barriera di qualunque genere. Per quanto riuscii a capire, visitammo per tutto il tempo un unico ambiente, che però era di dimensioni colossali. E anche piuttosto omogeneo, perché trovai ovunque un gran numero di Morlock impegnati nelle loro misteriose attività. I problemi che essi avevano dovuto risolvere per creare un ambiente simile erano tutt’altro che semplici: pensai, per esempio, a quello di mantenere stabili l’atmosfera, la temperatura, la pressione e l’umidità su vasta scala. Eppure Nebogipfel mi fece capire che la sala che stavamo visitando era soltanto una fra le tante che, come tessere di un mosaico, ricoprivano la Sfera da un polo all’altro.
Non tardai a comprendere che sulla Sfera non esistevano città in senso moderno. La popolazione viveva in quelle sale immense. Non esistevano ambienti riservati a determinate attività: quando si voleva attrezzare o smantellare un’area di lavoro, le apparecchiature necessarie uscivano o rientravano nel pavimento. Così anziché in vere e proprie città la popolazione si addensava in nodi, che si scioglievano e si ricreavano a seconda delle necessità.
Una volta, mentre me ne stavo seduto a gambe incrociate accanto al rifugio, sotto l’ombra protettiva dell’imperturbabile Nebogipfel, si avvicinò una coppia di Morlock. Quando li vidi, mi andò un sorso d’acqua di traverso e tossendo mi schizzai delle goccioline sulla giacca e sui calzoni.