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LIBRO PRIMO

La notte nera

1

Viaggiare nel tempo

Esistono tre dimensioni dello spazio attraverso cui ognuno può muoversi liberamente. Il tempo è semplicemente una quarta dimensione, identica alle altre in ogni sua caratteristica, tranne il fatto che la nostra coscienza è obbligata a percorrerla a un’andatura regolare, come la punta del mio pennino sulla pagina.

Nel corso dei miei studi sulle proprietà peculiari della luce, avevo ipotizzato che se soltanto fosse stato possibile piegare le quattro dimensioni dello spazio e del tempo, per esempio scambiando la lunghezza con la durata, allora sarebbe stato possibile percorrere le vie della storia con la stessa facilità con cui si poteva prendere una carrozza per andare nel West End.

La plattnerite inserita nelle componenti della macchina del tempo era la chiave del funzionamento di quest’ultima, giacché le consentiva di ruotare in maniera del tutto insolita, in una nuova configurazione della struttura spazio-temporale. Di conseguenza, chi avesse assistito alla partenza della macchina del tempo, com’era il caso dello Scrittore, l’avrebbe vista roteare vertiginosamente prima di scomparire dalla storia, mentre il conducente, ovvero io stesso, provava un inevitabile senso di vertigine indotto dalla forza centrifuga e dalla forza di Coriolis, nonché l’impressione di essere catapultato fuori della macchina.

Nonostante tutti questi effetti, la rotazione provocata dalla plattnerite era di una qualità diversa rispetto a quella di una trottola, o alla lenta rivoluzione della Terra.

Nel conducente, la sensazione di roteare veniva contraddetta dall’illusione di essere seduto immobile sul sellino intanto che il tempo scorreva all’esterno della macchina, giacché si trattava di una rotazione all’esterno del tempo e dello spazio stessi.

Mentre le notti si susseguivano ai giorni, i tratti indistinti del laboratorio si dissolsero, e mi ritrovai all’aria aperta. Ancora una volta attraversai l’epoca futura in cui, credo, il laboratorio sarebbe stato demolito. Il sole sfrecciava nel cielo come una palla di cannone, condensando interi giorni nello spazio di un minuto e illuminando la vaga struttura scheletrica del laboratorio intorno a me. In breve tempo, la struttura scomparve, lasciandomi sul versante di una collina.

La velocità del mio viaggio nel tempo aumentò. Il succedersi delle notti e dei giorni si fuse in un crepuscolo blu, in cui potei osservare la luna ruotare nelle sue fasi come la trottola di un ragazzino. Mentre procedevo con un’accelerazione sempre maggiore, il tragitto del sole divenne un arco luminoso che ondeggiava nello spazio. Intorno a me si susseguirono le stagioni, in raffiche di bianco niveo e di verde primaverile. Alla fine, l’accelerazione mi trasportò in un nuovo stato di quiete, in cui soltanto i cicli annuali della Terra medesima, il passaggio della cintura solare da un solstizio all’altro, pulsarono come un battito cardiaco sul paesaggio in trasformazione.

Non sono certo di avere descritto, nel mio primo resoconto, il silenzio in cui ci si trova sospesi allorché si viaggia nel tempo. Il canto degli uccelli, il tramestio lontano del traffico, il ticchettio degli orologi, persino il debole respiro della struttura stessa di una casa…

Tutto ciò costituisce l’arazzo tanto complesso quanto impercettibile sullo sfondo del quale si svolgono le nostre esistenze. Ma io, avulso dal flusso temporale, ero accompagnato soltanto dai rumori del mio stesso respiro e dal morbido cigolio come di bicicletta della macchina del tempo sotto il mio peso.

Provavo una sensazione straordinaria d’isolamento: era come se fossi stato scagliato in qualche nuovo universo buio, attraverso le cui pareti il nostro mondo era visibile come dai vetri sporchi di una finestra. In quel nuovo universo, però, ero l’unico essere vivente. Una sensazione di smarrimento profondo scese su di me, e unitamente a quella di precipitare vertiginosamente che si accompagnava al viaggio nel futuro, suscitò nausea e depressione.

A un tratto, il silenzio fu rotto da un mormorio cupo, privo d’origine, simile al fragore vorticoso di un fiume immenso, che mi assordò. L’avevo già notato durante il mio primo volo. Non potevo esserne certo, tuttavia mi pareva che fosse prodotto dal mio inopportuno passaggio attraverso il fluire maestoso del tempo.

Eppure sbagliavo, come mi accadeva tanto spesso nella mia frettolosa formulazione di ipotesi!

Osservai i quattro cronometri, picchiettando i quadranti con l’unghia dell’indice per accertarmi che funzionassero. Già la lancetta del secondo, che misurava i giorni in migliaia, aveva cominciato a spostarsi dalla sua posizione di quiete.

I cronometri, servi muti e fedeli, ricavati da altrettanti manometri, funzionavano misurando una determinata sollecitazione di taglio, indotta dagli effetti di torsione del viaggio temporale, in una barra di quarzo cosparsa di plattnerite, ed erano stati progettati per contare i giorni, anziché gli anni, i mesi, gli anni bisestili, o le feste mobili.

Non appena avevo iniziato a meditare sui problemi pratici inerenti ai viaggi temporali, e in particolare quello di misurare la posizione della macchina, avevo dedicato parecchio studio alla progettazione di un cronometro capace di misurare il tempo nel modo consueto, ossia in secoli, in anni, in mesi e in giorni, ma non avevo tardato a scoprire che molto probabilmente avrei dovuto dedicare più lavoro a questo singolo aspetto che all’intero progetto.

I difetti del nostro antiquato calendario mi avevano esasperato. Risultato di una serie di tentativi inadeguati, risalenti agli inizi della società organizzata, di misurare periodi come la stagione della semina e momenti come il solstizio d’inverno, il nostro calendario era un’assurdità storica, e non veniva riscattato neppure dalla precisione, almeno dal punto di vista cosmologico che intendevo affrontare.

Avevo scritto lettere furenti al Times, proponendo riforme che avrebbero consentito di eseguire calcoli con precisione e senza ambiguità su scale temporali di valore autentico per gli scienziati moderni. Tanto per cominciare, avevo sostenuto, occorreva sbarazzarsi dall’ingombro assurdo degli anni bisestili. Un anno è costituito da circa trecentosessantacinque giorni e un quarto, e questo quarto casuale provoca la ridicola sciarada delle correzioni bisestili. Avevo dunque proposto un’alternativa fra due metodi in grado di sostituire efficacemente questo sistema assurdo. Considerando il giorno come unità, si sarebbero potuti costruire mesi e anni sui multipli dei giorni: un anno di trecento giorni, composto da dieci mesi di trenta giorni. Naturalmente, ciò avrebbe comportato perdere in breve tempo la sincronia fra le stagioni, l’anno e i mesi, ma ciò, in una civiltà avanzata come la nostra, avrebbe sicuramente causato ben poche difficoltà. Il Royal Observatory di Greenwich, per esempio, avrebbe potuto pubblicare ogni anno un almanacco in cui fossero indicate le date dei cicli solari, ossia gli equinozi e così via, allo stesso modo in cui tutti gli almanacchi del 1891 indicavano le feste mobili delle chiese cristiane.

Considerando invece come unità fondamentale il ciclo delle stagioni, si sarebbe potuto calcolare il primo giorno dell’anno come frazione esatta, per esempio un centesimo, dell’anno stesso. Ciò avrebbe naturalmente comportato che la transizione fra la notte e il giorno, il sonno e la veglia, sarebbe avvenuta a ore diverse ogni primo dell’anno. Ma quale importanza avrebbe avuto? Avevo argomentato che molte città moderne erano già attive ventiquattr’ore al giorno. Quanto al punto di vista umano, non è difficile imparare a tenere un diario: con l’ausilio di registrazioni adeguate, sarebbe stato possibile programmare con pochi giorni d’anticipo la transizione fra il sonno e la veglia.