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Mentre ero assorto in queste lugubri meditazioni, mi accorsi che nel cielo avvenivano mutamenti continui, come se lo smantellamento dell’ordine naturale delle cose non fosse già stato sufficiente. Il sole divenne ancora più luminoso. Ebbi l’impressione, benché fosse arduo averne la certezza a causa di quella luce abbacinante, che l’astro medesimo cambiasse forma: dilatandosi nel cielo, diventava una chiazza luminosa di forma ellittica. Mi domandai se per qualche ragione stesse ruotando più rapidamente, così da risultare appiattito…

E allora, d’improvviso, il sole esplose.

3

Nell’oscurità

Getti luminosi eruttarono dai poli del sole come fiammate immense. In pochi istanti la stella fu avvolta da un manto sfolgorante di luce, e il calore bruciò la Terra sofferente.

Urlando, mi coprii il volto con le mani, ma continuai a vedere quella luce accecante, che filtrava persino attraverso le mie carni, riflessa dal nichel e dall’ottone della macchina del tempo.

Poi, improvvisamente com’era iniziata, la tempesta luminosa cessò, una sorta di guscio avvolse il sole, come se una bocca immensa lo inghiottisse, e io precipitai nelle tenebre.

Abbassai le mani, scoprendo di essere del tutto incapace di vedere, anche se parecchie chiazze luminose continuavano a danzarmi dinanzi agli occhi. Sentendo il sellino duro sotto le natiche, mi protesi a palpare i cronometri, mentre la macchina continuava a ondeggiare, proseguendo il viaggio attraverso il tempo. Mi chiesi, con terrore, se avessi perduto la vista.

Più nera dell’oscurità eterna, sorse in me la disperazione. La mia seconda, grande avventura era dunque destinata a concludersi tanto presto e tanto ignobilmente? Cercando a tastoni le leve di controllo, progettai febbrilmente d’infrangere i quadranti per tentare di capire al tatto dove mi trovassi, e quindi poter tornare nella mia epoca.

Allora mi accorsi di non essere cieco: riuscivo a vedere qualcosa.

Fu quello l’aspetto più strano di tutto il viaggio sino a quel momento: tanto strano, che per un momento ignorai persino la paura.

Nel buio, vedevo una luminosità vaga e diffusa che ricordava il sorgere del sole, ma tanto debole da indurmi a sospettare che potesse trattarsi di un inganno visivo. Ebbi l’impressione di scorgere le stelle tutt’intorno, ma fioche, opache, come viste attraverso uno sporco vetro colorato.

E in quella luminosità tenue mi accorsi che non ero solo.

L’essere si trovava pochi metri dinanzi alla macchina del tempo, o meglio, si librava nell’aria, senza sostegno. Era una sorta di palla di carne di un metro e venti di diametro, simile a una testa fluttuante, con due gruppi di tentacoli che pendevano come dita grottesche. A quanto potevo vedere, era privo di narici e aveva una bocca simile a un becco carnoso, ma notai che gli occhi, due, grandi e scuri, erano umani. Sembrava produrre un fragore cupo, come un fiume in piena: mi resi conto, con una fitta di terrore, che era esattamente lo stesso rumore che avevo già udito, non soltanto poc’anzi, ma anche durante il mio primo viaggio nel tempo.

Era mai possibile che quell’essere, che definii l’Osservatore, mi avesse accompagnato, senza essere visto, nel corso di entrambe le spedizioni temporali?

D’improvviso, si avventò su di me, giungendo a meno di un metro dal mio viso.

Infine, persi il controllo di me stesso: urlando, tirai una leva, senza curarmi delle conseguenze.

La macchina del tempo s’inclinò, l’Osservatore scomparve, e io fui catapultato nel vuoto!

Rimasi privo di conoscenza, non saprei dire per quanto tempo. Mi ripresi poco a poco, scoprendo di avere la faccia premuta contro una dura superficie sabbiosa. Ebbi l’impressione di sentire sul collo un respiro caldo, come una lieve carezza, o un sussurro; ma quando, con un gemito, feci per alzarmi, tali sensazioni svanirono.

Immerso in un’oscurità assoluta, seduto sulla sabbia pressata, con la testa che mi doleva per l’urto che avevo subito, in seguito al quale avevo perduto il cappello, non sentivo caldo né freddo. Nell’aria immota indugiava un odore di stantio.

Con le braccia protese, tastai tutt’ intorno, e quasi subito fui ricompensato, con mio grande sollievo, toccando l’avorio e l’ottone della macchina del tempo che, come me, era caduta in quel deserto buio. Palpai con entrambe le mani la gabbia, rendendomi conto che la macchina era rovesciata. L’oscurità però m’impediva di accertare se fosse danneggiata.

Ovviamente, mi occorreva far luce. Frugai nelle tasche alla ricerca dei fiammiferi, soltanto per non trovarne: scioccamente, infatti, avevo collocato l’intera provvista nello zaino. Reagendo al panico, che per un attimo mi travolse, mi alzai, tutto tremante, per accostarmi alla macchina. Con le braccia infilate tra le sbarre della gabbia, trovai a tastoni lo zaino, ancora saldamente sistemato sotto il sellino. L’aprii con impazienza, vi frugai sino a trovare i fiammiferi, me ne ficcai due scatole nelle tasche della giacca, infine ne accesi uno sulla striscia di sfregamento.

La luce della fiammella rivelò subito, poco più di mezzo metro di fronte a me, una testa dalla chioma bionda, lunga e liscia, con grandi occhi grigiorossi e la pelle cerea.

L’essere lanciò uno strano strillo gorgogliante, prima di scomparire nell’oscurità, oltre la zona illuminata dal fiammifero.

Era un Morlock!

Quando la fiammella mi scottò le dita, lasciai cadere il fiammifero. In preda al panico, rischiai di farmi sfuggire la preziosa scatoletta, mentre tentavo di accenderne un altro.

4

La notte nera

Con l’acre odore sulfureo dei fiammiferi nelle narici, indietreggiai sulla sabbia fino a premere la schiena contro la gabbia d’ottone della macchina del tempo. Dopo alcuni attimi di terrore, ritrovai sufficiente padronanza di me stesso per prendere una candela dallo zaino. Incurante della cera calda che mi colava sulle dita, tenni alta la candela, vicino al viso, guardando intorno alla luce della fiamma gialla.

Poco a poco, cominciai a distinguere ciò che mi circondava: la macchina del tempo rovesciata, con l’ottone e il quarzo che scintillavano alla luce della candela, e un edificio, o una statua gigantesca, che incombeva pallida a breve distanza da me. Il mondo non era del tutto privo di luce: il sole era scomparso, ma nel cielo si scorgevano le stelle, anche se le costellazioni non avevano più le stesse configurazioni che avevo conosciuto nella mia epoca. Non vidi alcuna traccia della presenza amichevole della luna.

In una zona del firmamento, però, non brillavano astri: a occidente, innalzandosi dall’orizzonte nero, un ellisse appiattito, privo di stelle, copriva un quarto dello spazio. Era il sole, avvolto dal suo guscio sorprendente.

Passato lo spavento, decisi per prima cosa di accertarmi di poter tornare nella mia epoca: dovevo insomma raddrizzare la macchina del tempo. Però non volevo farlo al buio. In ginocchio, scavai con il pollice una fossetta, in cui conficcai la candela, confidando nel fatto che in breve tempo la cera colata l’avrebbe rinsaldata in posizione. Così ebbi illuminazione sufficiente e le mani libere per agire.

A denti stretti, dopo aver inspirato, afferrai la macchina e spinsi anche con le ginocchia. L’avevo progettata affinché fosse solida, non facile da spostare, ma alla fine cedette al mio sforzo, inclinandosi, anche se nel tentativo urtai con la spalla una barra di nichel.

Quando posai una mano sul sellino, mi accorsi che il cuoio era stato graffiato dalla sabbia del mondo futuro. Palpai i cronometri, nascosti dall’ombra che io stesso gettavo: un vetro si era rotto, ma il cronometro sembrava funzionante. Allorché toccai le due leve bianche con cui avrei potuto tornare nella mia epoca, la macchina rabbrividì come uno spettro, rammentandomi che né essa né il suo conducente appartenevano a quel tempo. In qualsiasi istante, avrei potuto rimontare a bordo per tornare alla sicurezza del 1891, senza rischiare altra conseguenza che una ferita superficiale all’orgoglio.