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Mi sarei allontanato per continuare l’esplorazione, se la Sfinge non mi avesse ricordato l’orrore che avevo provato allorché i Morlock mi avevano rubato la macchina del tempo. Passai una mano sulla tasca in cui tenevo le leve: senza di esse, non sarebbe stato possibile azionare la macchina. Però, nulla avrebbe impedito ai ripugnanti Morlock d’impadronirsene durante la mia assenza, magari per smontarla, o per nasconderla nuovamente.

Inoltre, come avrei potuto evitare di smarrirmi in quella tenebra? Come avrei potuto essere certo di ritrovare la macchina, allontanandomi anche di poco?

Meditai sul problema, combattuto fra il desiderio d’esplorazione e un profondo senso d’angoscia. A un tratto, ebbi un’idea. Presi dallo zaino le candele e i pezzi di canfora, poi, frettolosamente, li conficcai nella gabbia della macchina del tempo. Infine, girandovi intorno, li accesi tutti, l’uno dopo l’altro.

Indietreggiando, osservai con un certo orgoglio la mia invenzione, che illuminata dalle fiammelle sembrava un albero di Natale, con il nichel e l’ottone che scintillavano. Sul colle spoglio, nel paesaggio tenebroso, avrei potuto vederla come un faro, da lontano, se la fortuna mi avesse assistito. Inoltre, le candele e la canfora avrebbero tenuto alla larga i Morlock, o almeno, se avessi visto diminuire la luminosità, avrei potuto tornare indietro di corsa, per intervenire.

Di nuovo posai la mano sull’impugnatura dell’attizzatoio. Una parte di me, credo, sperava che quella eventualità si realizzasse: mi sentii fremere le mani e gli avambracci al ricordo della strana, morbida sensazione provocata dall’impatto dei miei pugni sul volto dei Morlock!

Comunque, ero ormai pronto alla spedizione. Presi la Kodak, accesi una piccola lampada a olio, e m’incamminai su per la collina, sostando spesso per accertarmi che la macchina del tempo non corresse pericoli.

5

Il pozzo

La lampada illuminava la zona circostante soltanto in un raggio inferiore a due metri. Tutto era silenzio: non si udiva un alito di vento, né un gorgogliare d’acqua, tanto che mi domandai se il Tamigi esistesse ancora.

In mancanza di una destinazione precisa, risolsi d’incamminarmi verso il Palazzo di Pietra Grigia che avevo visitato all’epoca di Weena. Poiché lo ricordavo situato sulla collina, poco a nordovest della Sfinge Bianca, proseguii in tale direzione, ripercorrendo nello spazio, se non nel tempo, la mia prima passeggiata nel mondo di Weena.

A differenza dell’ultima volta che avevo compiuto quel breve tragitto, i miei piedi non calpestarono l’erba di un prato, bassa e regolare, bensì una morbida distesa di sabbia in cui affondavo a ogni passo.

Quando la vista mi si fu del tutto adattata all’oscurità rischiarata soltanto da poche stelle sparse, distinsi alcuni edifici che si stagliavano qua e là sullo sfondo del cielo, però non vidi traccia del palazzo che cercavo. Lo ricordavo perfettamente: vasto e cadente, di pietra lavorata, con un portale ad arco scolpito, che avevo varcato per la prima volta scortato dagli Eloi, bassi e pallidi, belli e delicati, abbigliati di vesti morbide.

In breve, mi resi conto di avere ormai superato il luogo in cui avrebbe dovuto trovarsi l’edificio. Evidentemente, il Palazzo di Pietra Grigia, a differenza della Sfinge e dei Morlock, non era sopravvissuto in quel corso della storia. O forse, pensai con un brivido, non è mai stato costruito! Forse avevo camminato, dormito e persino mangiato, in un edificio inesistente.

Poi giunsi a un pozzo che rammentavo dalla mia esplorazione precedente: aveva la sponda di bronzo e una cupoletta dalla strana foggia delicata che lo proteggeva dalle intemperie. Sulla cupola crescevano organismi vegetali, che apparivano neri come il giaietto alla luce delle stelle. Lo osservai con un certo timore, perché quello e tutti gli altri grandi pozzi dello stesso genere avevano consentito ai Morlock di salire dalle loro caverne infere al mondo solare degli Eloi.

La bocca del pozzo era silenziosa. Ciò mi parve strano, in quanto ricordavo di avere udito salire da quello e dagli altri pozzi il rumore ritmico dei macchinari installati nei sotterranei dei Morlock.

Seduto sulla sponda del pozzo, constatai che gli organismi vegetali che avevo notato erano simili ai licheni, morbidi e asciutti al tatto. Tuttavia, non li esaminai. Quando sollevai la lampada per suscitare eventuali riflessi e scoprire così se il pozzo contenesse acqua, la fiamma guizzò, come se dal sottosuolo salisse una corrente d’aria vigorosa. Al pensiero di ciò che poteva nascondersi nell’oscurità, ritrassi la lampada, preso per un attimo dal panico.

Poi, però, mi protesi sulla bocca del pozzo e, come se avessi aperto la porta di un bagno turco, fui investito da una ventata calda e umida, del tutto inaspettata nella notte del futuro, dove l’aria era altrettanto calda, ma secca.

Ebbi inoltre l’impressione di scorgere, nelle grandi profondità del pozzo, una luce rossastra. Nonostante l’aspetto, il pozzo era molto diverso da quelli dei Morlock che avevo conosciuto. Oltre a non udire il rumore dei macchinari, non vidi gli scalini metallici sporgenti che consentivano di salire dal pozzo, ed ebbi la strana impressione, del tutto inverificabile, che il pozzo medesimo scendesse a una profondità maggiore di quella a cui erano situate le caverne dei Morlock.

D’impulso, applicai il flash alla Kodak, riempii di blitzlichtpulver l’apposito scomparto, e illuminai il pozzo con un lampo al magnesio, tanto intenso da abbacinarmi: forse da centomila o più anni, ossia da quando il sole era nascosto, non si era più vista una luce simile al mondo. Se non altro, sarei riuscito a spaventare i Morlock. Elaborai subito il progetto di proteggere la macchina del tempo incustodita collegandovi il flash, in maniera tale che si accendesse ogni volta che l’apparecchio veniva toccato da estranei.

A caso, scattai alcune foto con il flash alla collina intorno al pozzo, così che in breve mi trovai avvolto da una nube di acre fumo bianco. Forse sono stato fortunato, pensai, e sono riuscito a fotografare, per lo stupore dell’umanità, le natiche di un Morlock che fugge in preda al terrore!

Dalla sponda del pozzo, a meno di un metro di distanza, giunse un rumore graffiarne, fievole e insistente.

Con un grido, sfilai l’attizzatoio dalla cintura, temendo che i Morlock si preparassero ad aggredirmi, mentre indugiavo nei miei sogni a occhi aperti.

Avanzai prudentemente, con l’attizzatoio in pugno, e non tardai a scoprire che il rumore proveniva dai licheni piccoli e scuri, fra i quali si muoveva un essere di piccole dimensioni. Giacché non poteva trattarsi di un Morlock, abbassai l’attizzatoio e mi curvai per osservare meglio. Il rumore era prodotto dallo sfregamento contro i licheni dell’unica chela sproporzionata di un animale simile a un granchio, non più grande della mia mano. L’essere, che appariva nero come il giaietto, era del tutto privo di occhi, al pari di un cieco abitatore delle profondità oceaniche.

Ne dedussi che la lotta per la sopravvivenza continuava anche nell’oscurità assoluta. Al tempo stesso, mi resi conto che, a parte i Morlock che avevo intravisto, non avevo trovato altre tracce di vita. Benché non fossi un biologo, mi parve chiaro che, in quel mondo desertico, fosse l’aria calda e umida che saliva dal pozzo ad attirare gli esseri viventi, come i licheni e il granchio. Il calore era sicuramente di origine vulcanica, giacché il nucleo del pianeta non poteva essersi raffreddato molto neppure in seicentomila anni, mentre l’umidità proveniva forse dalle falde acquifere superstiti.

Era possibile che anche in quell’epoca la superficie del pianeta fosse cosparsa di pozzi, i quali, però, non avevano la funzione di consentire l’accesso al mondo sotterraneo dei Morlock, com’era accaduto nell’altra che avevo conosciuto, bensì di liberare le riserve di calore e di umidità accumulate nel sottosuolo di quel pianeta privo di luce; ecco perché vi si radunavano intorno gli esseri viventi sopravvissuti alla trasformazione immane cui avevo assistito.