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Un attacco epilettico? L’epilessia era un pensiero ricorrente per lui, quella mattina. Con voce bassa e intensa le parlò, cercando di calmarla, di raggiungerla in qualche maniera. Altri suoni baritonali uscirono dalla bocca di Lissa, in rochi scoppi interrotti. Statiche dell’anima.

— Lissa — disse. — Lissa, mi senti? Cerca di rilassarti. Allenta i muscoli.

Più facile a dirsi che a farsi. Continuava a contrarsi. Nel mezzo di tutto questo, avvertì una sensazione di calore alla base del cranio, come se un succhiello lo penetrasse. Oppure trapanasse verso l’esterno, partendo dal centro morbido del suo cervello. Qualcosa si mise a saltare freneticamente dentro la sua bocca, e gli ci volle un momento prima che si rendesse conto che era la sua lingua, che si protendeva assurdamente verso la gola. — Vshh. Vshh. Pkd-dd. Slrr. Msss. - I suoni non provenivano da Lissa questa volta, ma da lui.

Mentre giaceva lì, congelato e coagulato sopra Lissa, comprese perfettamente quello che stava succedendo. Nat Hamlin, avendo conservato le forze per un paio d’ore, stava cercando di conquistare un nuovo livello del loro comune cervello. Per la precisione: stava cercando di assumere il controllo dei centri vocali.

Macy sapeva che questo avrebbe segnato l’inizio della sua obliterazione; una volta che Hamlin avesse avuto il controllo della voce, sarebbero stati i suoi pensieri, non quelli di Macy, a venire espressi dal loro corpo. Hamlin avrebbe avuto accesso al mondo esterno, e Macy ne sarebbe stato escluso. Ma per il momento Hamlin non se la stava cavando troppo bene. Aveva afferrato i settori neurali che governavano la parola, ma la sua presa non era completa, e il meglio che gli riusciva erano tre suoni privi di senso. In qualche maniera, si rese conto Macy, Lissa era rimasta coinvolta nella battaglia prima che lui stesso si rendesse conto che era in corso. Il cervello di lei era agganciato al suo; Hamlin che parlava, o cercava di farlo, attraverso la bocca della ragazza. Una specie di effetto microfonico. Adesso lo stavano facendo tutti e due insieme, urlando come foche dementi. L’ora del pranzo allo zoo. È qui che finisce? D’ora in poi Hamlin mi sostituisce? No. No. Combatti. Fermalo ora e chiudilo in un angolo.

Ma come?

Così come hai fatto ieri notte, quando ti controllava la metà della faccia. Staccalo da te. Mediante la pura forza di concentrazione, spezza la sua presa.

Macy cercò di visualizzare l’interno del suo cervello. Dicendosi: Qui vive Hamlin, in questa sacca di fanghiglia, e questi sono i percorsi che si sta costruendo per raggiungere le altre parti del mio cervello, e questo è il posto che sta attaccando ora. Era una costruzione puramente immaginaria, ma per il momento sarebbe servita. Adesso cerca di visualizzare i centri della parola. Diciamo: file e file di cordoni rosa, tesi, come in un pianoforte, con una specie di quadro di distribuzione attaccato. Hamlin al quadro, che infila e stacca spinotti, cercando le connessioni giuste; e le corde rosa, che emettono suoni stridenti e bizzarri. Vagli alle spalle. Prendilo per le braccia. Non è più forte di te. Tiralo indietro, buttalo a terra. Saltagli sopra. Attento a non fracassare qualcosa. Ne avrai bisogno quando sarà finita. Non mollarlo. Stagli sopra. Bloccalo! Bene! Sbattigli la testa sul pavimento un paio di volte. D’accordo: il pavimento è elastico, ma serve lo stesso a intontirlo. Bene. Adesso. Trascinalo fuori. Pesa, quel bastardo. Ottantacinque chili, proprio come te. Forza, forza. In questo corridoio ammuffito. Che puzza di umidità. Ci deve essere qualcosa che sta marcendo. Buttiamolo dentro. Via! E adesso chiudiamo la porta. Ecco fatto, più facile di quanto credevi, eh? Ci vuole solo un po’ di energia mentale. Perseveranza. Puoi rilassarti adesso. Tira il fiato.

Ehi, Cristo, che succede? Deve essere rinvenuto, là dentro. Sta tempestando di pugni la porta. Cerca di aprirla. Ehi, non puoi lasciarlo fare. Tienila chiusa! Spingi… spingi… spingi… Siamo in una situazione di stallo. Lui non riesce ad aprirla di più, tu non riesci a chiudere l’ultima fessura. Spingi. Anche lui spinge. Spingi. Spingi. Con tutte le forze. Gesù! Ce l’ho fatto. L’ho richiusa. Bene. Tieni la spalla contro la porta, non mollare. L’orso è rinchiuso nella sua tana; non farlo uscire.

Ma bisogna bloccare la porta. Con cosa? Tira il catenaccio, deficiente. Ma non c’è nessun catenaccio. Sicuro che c’è. Questa è la tua mente, la tua fottutissima mente, non sei capace di usare un po’ di immaginazione? Inventati un catenaccio! Così. Bene. Adesso tiralo. Infilalo nel buco. Dentro. Dentro. Bene, un passo indietro. Vediamo se ce la fa a uscire, adesso. Tienti pronto a picchiarlo se ci prova. Sta battendo contro la porta. Ci si butta addosso. Ma il catenaccio tiene. Tiene. Ben fatto. E adesso controlliamo le macchine. Che non le abbia danneggiate. A voce alta e chiara, sentiamo:

— Il mio nome è Paul Macy.

Bravo. Mi fa piacere sentire qualcosa di sensato uscire di nuovo dalla tua bocca.

— Sono nato ad Idaho Falls, il 12 marzo 1972. Mio padre era ingegnere e mia madre insegnante.

L’emissione della voce in generale funziona. Un po’ arrugginita, un po’ sbavata sulle basse frequenze, ma c’era da aspettarselo, visto come ha abusato delle tue corde vocali. Si rimetteranno a posto subito, vedrai.

Hai vinto questo round, Macy.

Lentamente, tremando, si rialzò. Lissa era ancora stesa sul letto, con un’aria sgualcita e appiattita. Non si mosse. La faccia aveva assunto il suo aspetto normale. Aveva gli occhi aperti. Una luce brillava in essi. Un’espressione cupa, assente.

— Stai bene? — chiese.

Non rispose. Era in un’altra galassia, forse.

— Lissa, stai bene?

Fissandolo lei disse: — Te ne frega qualcosa se sto bene? — La voce era roca quanto quella di Macy.

— Che razza di domanda sarebbe?

— Ce l’avevi con me, prima che cominciassero i fuochi d’artificio — disse lei. — Dicendomi che sospettavi che fossi dalla sua parte, e un sacco di altre stronzate. Se avessi un minimo di buon senso me ne andrei da qui in fretta. Non è giusto che tu mi tratti così. — Si alzò, stringendosi i fianchi fra le braccia, con un’aria più vulnerabile che mai. Le linee blu delle vene visibili sui suoi seni. Smagliature sui fianchi, che mostravano dove avesse perso peso. Movimenti rapidi, irosi… Afferrò i vestiti e se li mise addosso. Una camicetta, una tunica. Disse: — Era lui vero? Hamlin? Che cercava di parlare con la mia voce.

— E poi con la mia, sì.

— Dov’è andato?

— L’ho respinto. L’ho costretto a mollare la presa.

— Che bravo. — Con voce atona. — Il mio eroe. Vedi i miei sandali da qualche parte?

— Dove vuoi andare? — chiese Macy.

— Questa è una casa di pazzi. Sto peggio qui di quando ero sola. Me ne torno a casa mia.

— No — disse lui. Ricordò che aveva deciso, quello stesso giorno, di cancellarla dalla sua vita non appena il Centro Riab avesse estratto Hamlin dal suo cervello. Dicendosi che era troppo pericoloso averla intorno, a causa del suo dono, o della sua maledizione, qualsiasi cosa fosse che aveva svegliato Hamlin. Basta con Lissa, aveva deciso. Come gli sembrava futile tutto questo, adesso. Aveva ancora Hamlin dentro di lui, ed era terrorizzato dal pensiero di dover lottare contro di lui in solitudine. Lissa adesso non era più così superflua come lo era stata poco prima. — Non andartene — disse. — Ti prego.

— Non ho altro che guai qui.

— Non volevo litigare con te. Avevo i nervi a fior di pelle, ecco tutto. Puoi capirlo. Non intendevo accusarti di niente, Lissa.

— D’accordo. Però mi hai sconvolta. E poi è arrivato lui, mi è balzato dentro la testa. Quei suoni che mettevo, non mi era mai capitato prima. Come se fossi il burattino di un ventriloquo. Potevo sentire Nat che cercava di muovere le mie labbra, ti tendere le mie corde vocali, di far uscire le sue parole dalla mia bocca… — Parve quasi soffocare. — Veniva da te, Paul. Credevo che mi scoppiasse la testa. Non voglio che mi succeda un’altra volta.