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— L’ho respinto — disse Macy. — L’ho fatto tacere.

— E se torna all’attacco? O se tu ricominci a sospettare di me? A chiedermi se sono davvero dalla tua parte? Magari la prossima volta mi picchierai anche. Potresti spezzarmi le braccia. Potresti farmi saltare tutti i denti. E poi scusarti.

— Questo è impossibile.

— Ma hai delle ragioni per essere ostile. È colpa mia se si è risvegliato dentro di te, no? Anche se io volessi restare qui, non credo che sarebbe un bene per te. Magari adesso mi userà per portare a termine la conquista del tuo corpo. Indirizzando le sue energie mentali attraverso la mia ESP, oqualcosa del genere. Poco fa c’era quasi riuscito, no? Vuoi rischiare?

— E chi lo sa? — disse Macy. La prese per un braccio, mentre lei si dirigeva lentamente verso la porta. — Devo pregarti, Lissa? Non lasciarmi adesso.

— All’inizio non volevi avere niente a che fare con me. Poi mi hai gridato che non ti fidavi di me. Adesso non vuoi che me ne vada. Non riesco a capirti, Paul. Quando qualcuno esce da un Centro Riab dovrebbe essere sano di mente, no? Tu mi fai troppa paura. Voglio andarmene di qui.

— Ti prego. Rimani.

— Perché?

— Per aiutarmi a combattere contro di lui. Ho bisogno di te. E tu hai bisogno di me. Possiamo aiutarci a vicenda. Separati, siamo destinati a essere sconfitti. Insieme…

— Insieme saremo pure sconfitti — disse lei. Ma senza avvicinarsi ulteriormente alla porta. — Senti, credevo che tu potessi aiutarmi, Paul. Per questo ti ho scritto alla compagnia, per questo ti ho pregato di incontrarmi. Ma adesso mi rendo conto che i tuoi guai sono brutti quanto i miei. Peggiori, forse. Io sento solo voci dall’esterno. Tu hai un altro dentro la tua testa. A causa mia. Possiamo solo farci del male a vicenda.

— No.

— Dovresti saperlo. Guarda cosa ti ho già fatto, facendo tornare lui in vita. Poi tu, che me l’hai scagliato in testa per un paio di minuti. E così via. E così via. Le cose diventeranno sempre peggiori per entrambi noi.

Lui scosse la testa. — Intendo combattere. L’ho battuto due volte in due giorni. La prossima volta lo finirò definitivamente. Ma non voglio essere solo mentre lo faccio.

Alzando le spalle, lei disse: — Non pendertela con me se…

— Non lo farò. — Guardò l’ora. Un’idea improvvisa gli balenò in testa. Dalle loro opere li conoscerai. Sì. Andare al museo, vedere la sua versione di Lissa. Guardarla attraverso i suoi occhi.

Un desiderio improvviso e irresistibile di conoscere il passato sorse in lui, di scoprire che razza di uomo fosse stato, cosa avesse creato. In un certo senso cosa ero stato capace di fare io. E la scultura di Lissa un ponte verso questo passato nascosto. Che l’avrebbe condotto fuori da quella non-vita di ombre, nel regno dell’esperienza autentica.

Lui aveva fatto questo, il prodotto della sua unica e irripetibile visione del mondo. E devo comprenderlo per poterlo sconfiggere.

Macy disse: — Ascolta, non ha senso che vada in ufficio a quest’ora. Ma abbiamo ancora tutto il pomeriggio. Sai dove voglio andare? Al Metropolitan Museum. Per vedere la scultura che ti ha fatto, l’Antigone 21.

— Perché?

— Il vecchio proverbio: conosci il tuo nemico. Voglio vedere l’interpretazione che ha dato di te. Per scoprire come è fatta la sua mente. Quali sono i suoi punti deboli.

— Non credo che dovremmo andare. Chissà quali processi potrebbe mettere in moto? L’hai detto tu stesso, che in ufficio hai visto uno dei suoi pezzi e per poco non sei svenuto. Immagina se al museo…

— Sono stato colto di sorpresa, quella prima volta. Adesso è diverso. Devo assumere l’offensiva, Lissa. Ingaggiare battaglia, capisci. E il museo è un posto buono quanto un altro per cominciare. Devo fargli vedere che posso tenergli testa in qualsisia condizione. D’accordo? Allora andiamo? Al museo.

— E va bene — disse lei con voce assente. — Al museo.

7

Entrando nel grande edificio si sentì a disagio: la sensazione oppressiva di essere un estraneo a quel vasto e labirintico palazzo di cultura.

Frugando nella sua riserva di ricordi sintetici, non riuscì a trovare di esserci mai stato. O in qualsiasi altro museo. Quelli del Riab non gli avevano fornito un grande interesse per le arti visive, a quanto pareva. La musica sì. E il teatro. Perfino il balletto. Ma niente scultura né pittura, né alcunché che potesse ricondurlo al mondo che Nat Hamlin aveva abitato. Una deliberata differenza rispetto al passato abolito.

E tuttavia, perché era così nervoso entrando? Paura di essere riconosciuto, forse. Gente che si voltava, mormorava, indicava. Guarda, quello è Nathaniel Hamlin, il famoso psicoscultore. Ha fatto quella donna nuda che abbiamo visto prima. Hamlin. Hamlin. Quell’uomo assomiglia proprio ad Hamlin. Rendendo magari necessaria una spiegazione. Mi scusi, signora, ma lei si sbaglia. Il mio nome è Paul Macy. Mai scolpito in vita mia. Toccandosi ostentatamente il distintivo Riab. Sbattendoglielo davanti agli occhi. Devo dirle, signora, che Nat Hamlin è diventata una non-persona. E la donna che si allontanava imbarazzata, i tacchi che battevano sul pavimento di pietra, lanciandogli delle occhiate al di sopra della spalla, con una piccola smorfia di disprezzo. Magari andando anche a raccontare a una guardia che l’aveva infastidita.

Macy sorrise acidamente, e cancellò l’intero scenario. Non era molto probabile che succedesse qualcosa del genere. Rembrandt avrebbe potuto camminare in quel luogo, e nessuno l’avrebbe riconosciuto. Michelangelo. Picasso. Mamma, chi è quell’omino pelato? Zitto, caro, credo che sia qualche senatore. Sì. Macy cacciò via la sua apprensione. Entrarono.

Appena oltre l’ingresso dovettero fermarsi un momento sotto un cono di luce azzurra, che dava una sensazione di formicolio; un detector che controllava se non avessero esplosivi, coltelli, barattoli di pittura o altri strumenti vandalici. Evidentemente c’era una notevole ostilità diretta contro i capolavori dell’arte in quella città. Superarono l’esame ed entrarono nel monumentale salone. Faraoni di granito rosa a sinistra; Apollo in marmo bianco sulla destra. Davanti, una fuga vertiginosa di sale. C’era l’odore secco del passato: il diciannovesimo secolo, il quattordicesimo, il terzo.

— Dov’è? — chiese. — La tua statua.

— Al secondo piano, in fondo, la sezione arte moderna — disse Lissa. Ancora una volta sembrava distante, scontrosa. Scivolava facilmente in quello stato di cupa indifferenza. — Vai tu, Paul. Io aspetto qui, mi guardo qualcosa di egiziano. Non voglio vederla.

— Vorrei che tu venissi con me.

— No.

— Gesù, perché no?

— Perché mostra quanto fossi bella. Non voglio essere insieme a te quando la vedrai. E quando ti volterai verso di me e vedrai come sono diventata. Vai, Paul. Non avrai nessuna difficoltà a trovarla.

Lui fu ostinato. Rifiutandosi di lasciarla. Restio a vedere il pezzo di Hamlin senza di lei. E se quella vista l’avesse fatto crollare di nuovo a terra; chi l’avrebbe aiutato a rialzarsi? Ma lei fu ugualmente ferma. Non sarebbe andata con lui, e basta. Quella visita al museo era una sua idea assurda. Non poteva sopportare l’idea di vedere la statua. Non vuoi venire? No. No. Una piccola scena di litigio nel maestoso salone. I loro sussurri aspri che echeggiavano da arcate di alabastro. La gente che li guardava. Si aspettava che da un momento all’altro qualcuno dicesse: Ehi, quello non è lo scultore Nathaniel Hamlin? Laggiù, quel tipo alto che discute con la rossa. Terrorizzato da quell’idea irrazionale, il suo disagio divenne così forte che fu sul punto di lasciarla fare come voleva, quando d’improvviso lei si morsicò il labbro superiore, si premette le nocche contro la mascella, tirò su le spalle come se cercasse di toccarsi con esse i lobi delle orecchie, risucchiò le guance. Cominciò a muovere la bocca da una parte all’altra. Forse era infilzata da dardi invisibili. Gli occhi fuori dalle orbite. Lucidi per il panico. Dopo qualche momento, con voce appena udibile, disse: — E va bene. Vengo con te, ma sbrighiamoci!