Ogni volta che la ragazza pronunciava quel nome, lui sentiva l’ago scivolargli dietro i globi oculari.
— Macy. Paul Macy.
— Non mi piace questo scherzo. È crudele, Nat. Non sarebbe la prima volta.
— Non la conosco proprio, signorina.
— Non mi conosci proprio. Non mi conosci proprio.
— Non la conosco proprio. Esatto.
— Lissa Moore.
— Spiacente.
— Che razza di viaggio stai facendo, Nat?
— Il secondo — disse Macy.
— Il… secondo?
Si toccò il distintivo. Questa volta lei lo vide.
— Riab? — disse. Sbatté un paio di volte le palpebre: evidentemente cercando di riorientarsi. Del colore sulle guance, adesso. Si morse le labbra, imbarazzata.
Lui annuì. — Sono appena uscito. Adesso capisce? Non la conosco. Non l’ho mai conosciuta.
— Cristo — disse. — Siamo stati tanto bene insieme, Nat.
— Paul.
— Come faccio a chiamarti così?
— È il mio nome adesso.
— Siamo stati tanto bene insieme — ripeté. — Prima che tu te ne andassi. Prima che io stessi male. Non lavoro molto adesso, sai. È stata dura.
— Mi dispiace — le disse, a disagio. — Non è bene che trascorra troppo tempo con persone conosciute durante il mio primo viaggio. O anche poco tempo, a dire la verità.
— Non vuoi venire da qualche parte a parlare?
— Non posso. Non devo.
— Forse un’altra volta? — chiese lei. — Quando ti sarai abituato un po’.
— Temo proprio di no — disse Macy. Fermamente ma cortesemente. — Il punto è che ho dato un taglio netto al passato, e non devo cercare di ricucire questo taglio, o lasciare che qualcun altro lo faccia. Sono in un viaggio completamente nuovo, lo capisce?
— Lo capisco — mormorò lei — ma non lo voglio. Ho un sacco di guai in questi ultimi tempi, e tu puoi aiutarmi, Nat, se solo…
— Paul. E non sono in condizioni di aiutare nessuno. Riesco appena ad aiutare me stesso. Guardi come mi tremano le mani.
— E stai sudando. Hai la fronte bagnata.
— La pressione è tremenda. Sono condizionato a stare lontano dalle persone del mio passato.
— È orribile sentirti parlare così. Persone del mio passato. Come una ghigliottina che cala. Mi hai amato. E io ti ho amato. Amato. Ancora. Amato. E quando dici…
— La prego.
— Io ti prego. — Tremava, stringendolo per un braccio. I suoi occhi, che erano diventati vitrei, sbattevano velocissimi. — Andiamo a bere qualcosa, a fumare, a parlare. So cos’è la Riab, ma ho troppo bisogno di te. Ti prego. Ti prego.
— Non posso.
— Ti prego. - E si protese verso di lui, le dita che affondavano fino all’osso del suo polso destro, e Macy avvertì una strana sensazione alla cima del cranio. Una specie di intrusione. Un pizzicore. Un leggero calore. Insieme a esso ci fu un fastidioso offuscamento della personalità, una duplicazione dell’io che per un attimo lo lasciò senza ormeggi. Paul Hamlin. Nat Macy. Nel cuore della sua mente esplose una scena netta, dai colori sgargianti: lui chino su una specie di tastiera, e quella ragazza in piedi nuda dall’altra parte di una stanza piena di cose, le mani premute contro le guance. Grida, stava dicendo lui. Avanti, Lissa, grida. Facci sentire un bell’urlo. L’immagine svanì. Era tornato su una strada di Manhattan Nord, ma aveva delle difficoltà con la vista, era tutto sfocato, e diventava più appannato a ogni secondo. Le gambe non lo reggevano. Una fitta di dolore sotto lo sterno. Forse addirittura un attacco di cuore. — Ti prego — stava dicendo la ragazza. — Non mandarmi via, Nat. Nat, cosa ti succede? Hai la faccia tutta rossa!
— Il condizionamento… — annaspò lui.
La pressione si allentò. La ragazza arretrò, accostando le nocche delle dita alle labbra. Man mano che la distanza fra loro aumentava si sentiva meglio. Si appoggiò al fianco dell’edificio con una mano e con l’altra le fece segno di andarsene. Vai via. Via. Fuori dalla mia vita. Chiunque tu fossi, non c’è più posto ora. Lei annuì. Continuò ad arretrare. Ebbe un’ultima visione della sua faccia tesa, con gli occhi gonfi, poi venne nascosta dal flusso di gente. Sarà così ogni volta che incontro qualcuno che ho conosciuto ai vecchi tempi? Ma forse gli altri non faranno così. Rispetteranno il mio distintivo e mi passeranno a fianco in silenzio. Datemi la possibilità di ricominciare. È una questione di correttezza. Lei non è stata corretta. Una troia nevrotica, che pensava solo ai suoi di guai. Aiutami, continuava a dire. Ti prego, ti prego, Nat. Come se io potessi aiutare qualcuno.
Venti minuti dopo arrivò all’ufficio della compagnia. Dieci minuti di ritardo, ma era inevitabile. Gli ci era voluto un po’ per riprendersi, dopo l’incontro con la ragazza. Per eliminare l’adrenalina dal sistema, per lasciar asciugare il sudore. Era importante che si presentasse con un aspetto sereno; più importante, in effetti, che arrivare in orario il primo giorno. Quelli della compagnia probabilmente erano disposti a tollerare un po’ di ritardo all’inizio, considerando tutto quello che aveva passato. Ma doveva dimostrare di possedere le qualità professionali che il lavoro richiedeva. Lo assumevano per generosità, era vero, ma non era pura carità: non l’avrebbero accettato se non fosse stato adatto al lavoro. Perciò doveva dimostrare di possedere quella facciata di disinvoltura, di scioltezza che era indispensabile per un commentatore dell’olovisione. Fermati a riprendere fiato. Pettinati i capelli. Sistemati il colletto. Datti un’aria di tranquilla sicurezza. Hai avuto un brutto momento, lungo la strada, ma adesso ti senti molto meglio. Bene. Adesso entra. Passo sicuro. Uno-due-uno-due.
L’atrio era oscuro, cavernoso. Schermi dappertutto. Un centinaio di sensori montati nelle pareti di onice, robot antivandali dall’aria affabile e impersonale, pronti a intervenire se qualcuno cercava di creare fastidi. Macy accese uno degli schermi e una faccia femminile sorridente apparve. Appena un accenno di prosperosi seni nudi sul fondo dello schermo, tagliati dalla pudibonda telecamera. — Ho un appuntamento — disse. — Con il signor Bercovici. Paul Macy.
— Certamente, signor Macy. L’elevatore alla sua destra. Trentottesimo piano.
Entrò nel pozzo. Era già programmato; serenamente, galleggiò verso l’alto. In cima, un altro schermo. La faccia di una ragazza negra, elegante, molto magra, con le sopracciglia rasate e gli zigomi lucidi. Il solito alone di capelli luminescenti. — Prego, usi l’Ingresso Verde — disse, con voce roca da contralto. — Il signor Fredericks l’attende alla Galleria Nove della Rotonda.
— Io ho appuntamento con il signor Bercovici…
Troppo tardi. Lo schermo si era spento. L’Ingresso Verde, un immenso portale ovale, color foglia di rododendro, si stava aprendo come il diaframma a iride di una vecchia macchina fotografica. Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate. Macy passò rapidamente, col timore che il diaframma si chiudesse mentre aveva una gamba da una parte e l’altra dall’altra. Oltre la soglia l’aria era appiccicaticcia, carica di un calore e di un’umidità da foresta tropicale, e di fragranze misteriose. Vide corridoi bassi e scuri che si diramavano in una dozzina di direzioni. Le pareti erano rosa e incurvate, senza angoli, e sembravano fatte di una sostanza spugnosa ed elastica. Quel posto era come un immenso grembo. Intrappolato nelle tube di Falloppio. Macy cercò di non rimettersi a sudare. Si sentì uno schiocco, come quello che può essere prodotto facendo scivolare un dito all’interno della guancia ed estraendolo di scatto dalla bocca, e la ragazza negra emerse da una fenditura nella parete, che immediatamente tornò a sigillarsi. Anche lei era sigillata come una crisalide, in una guaina di plastica rossa che andava dalla gola ai piedi, e copriva tutto senza nascondere niente, facendo risaltare i contorni del corpo scheletrico. Una superba struttura ossea. Disse: — Mi chiamo Loftus. L’accompagno nell’ufficio del signor Fredericks.