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Sempre più veloce. Nomi, date, eventi, aspirazioni, che roteano in una densa zuppa di ricordi, tutto che si confonde, i dettagli che spariscono. Forse non era mai accaduto nulla di tutto questo.

…Buona notte, vecchio mio.

Lissa piangeva sommessamente, fra sé, quando Macy andò a letto, martedì sera. Le toccò un braccio, e lei si scostò. Dopo, gli disse che le spiaceva di essere stata così scortese.

Mercoledì mattina, uscendo per recarsi al lavoro, a Macy parve di scorgere uno degli scagnozzi del Centro Riab, che a detta di Gomez dovevano sorvegliarlo. Un tipo piccoletto, con la pancetta, in piedi sull’ingresso dell’edificio dall’altra parte della strada, con in mano un giornale. Uno scambio imbarazzato di occhiate guardinghe. Da parte di Macy un rapido sorriso. Io e la mia ombra. Mano destra sulla spalla sinistra! Mano sinistra sulla spalla destra! Mani intrecciate dietro il collo!

Quella sera, propose a Lissa di andare in centro, in una fumeria, ma Lissa non volle. Una serata tranquilla in casa, con Brahms e Shostakovich. All’ora di andare a letto, Lissa disse di aver trovato un sistema per liberarsi di Hamlin.

— Come?

— Potresti violentare qualcuna e farti prendere. E dare la colpa a lui. Ci penseranno le autorità a cancellarlo completamente.

— Mi ucciderebbe se dovessimo essere arrestati — disse Macy. Un’idea folle. Una ragazza folle. Potresti violentare qualcuna e farti prendere. Dentro di lui Hamlin rise. Lissa pianse ancora quella notte, e quando Macy le chiese se poteva aiutarla, non rispose.

Non aveva molto da fare in ufficio giovedì… soltanto mezz’ora di lavoro per aggiustare un servizio che aveva registrato la settimana prima. Passò il resto della giornata cercando di sembrare occupato. Soprattutto, con un altro fine settimana di fronte, cercò di pensare a qualcosa che potesse distrarre Lissa, e magari strapparla dall’umor nero che così frequentemente si impadroniva di lei.

Sentiva che la stava perdendo. Che lei si stava perdendo. Scivolando in un mare tiepido e senza spiagge, ricoperto da una spessa nebbia blu. Non usciva di casa da tre giorni. Macy sospettava che se ne stesse a letto fino a mezzogiorno o all’una, poi si alzava per fumare, ascoltare musica, girare pagine di libri, sognare a occhi aperti. Galleggiando. Non parlava quasi più. Neppure rispondeva alle sue domande: solo qualche grugnito. La settimana prima Macy si era sentito assediato, con Lissa che divideva con lui l’appartamento, e Hamlin che divideva il cervello, ma adesso Lissa si stava avvolgendo nel suo bozzolo, e anche Hamlin si era allontanato. Macy era abituato alla solitudine, ma non per questo gli piaceva.

Quel week-end, decise, esploreremo le meraviglie del mondo al di là della porta di casa. Noleggeremo una macchina, ci faremo trecento, quattrocento chilometri in campagna, fin dove bisogna arrivare per vedere pascoli aperti. Picnic sull’erba. Una valletta boscosa. Romantiche fornicazioni sotto i rami di pini mormoranti e fragranti. Se ce ne sono ancora. E andremo in ristoranti di lusso. Chiederò ad Hamlin di indicarmene qualcuno. Pronto, pronto, c’è nessuno? E sabato notte, in una fumeria di Times Square, tutto luci e orpelli, inaleremo i più moderni allucinogeni e ci godremo due ore di terrestri fantasie. Forse visiteremo l’acquario, in maniera che Lissa possa origliare i sogni ponderosi e coriacei dei trichechi e delle balene. Ah, un fine settimana gratificante! Divertimento e nutrimento per le nostre anime sfibrate!

Ma quando Macy arrivò a casa, quella sera, Lissa non c’era. Un senso di déja vu: l’ha fatto anche giovedì scorso, no? È passata una settimana, e nulla è cambiato. Ma c’è una differenza questa volta, come rivela una rapida indagine negli armadi. Ha portato con sé le sue cose. Se n’è andata per sempre.

La cosa più facile, adesso, era anche la più difficile. Starsene tranquilli, dimenticarla, farsi una vita senza lei. Nient’altro che guai e fastidi con lei, no? Le complicazioni dell’animo femminile unite e moltiplicate dall’inesplicabilità della telepatia. Lasciala andare. Lasciala andare. Ci sono buone probabilità che ritorni, come l’ultima volta. Ma non poteva. Maledizione. Doveva andare a cercarla. Il posto più logico. Il suo appartamento.

Una dolce notte di primavera.

Le stelle in mostra sopra le punte della città. Venditori di sogni confusi che si aggiravano per le strade. Giù nel tubo. Whoosh whoosh whoosh. Cambio per la linea dell’East Side. Tornando sui propri passi. La sua stazione. Le strade strette, gli edifici malconci, sopravvissuti a tutte le trasformazioni culturali. Escrescenze coriacee che spuntano dal corpo del passato abolito. Quale di quelle case è la sua? Sembrano tutte uguali. Figure misteriose che appaiono e scompaiono nei vicoli. Una visita lì è come un viaggio a ritroso nel tempo. Un quartiere di azioni oscure e insondabile spionaggio; una Istanbul, una Lisbona della mente, inserita nel tessuto vibrante di New York. Questo sembra il posto giusto. Entrerò.

Elenco degli inquilini? Non farmi ridere!

Macy scrutò nella penombra giurassica dell’ingresso cavernoso. Scorse una figura, lontana, china e distorta, che zoppicò verso di lui mentre procedeva cautamente. Poi lo shock del riconoscimento: lui stesso che si avvicinava. Quella che vede è l’immagine di Paul Macy riflessa in uno specchio crepato e ondulato che occupa la parete in fondo. Risate. Applausi. Su sei piani di casa, apparecchi olovisivi offrono la loro merce con assordante simultaneità. Lissa? Lissa? Abitava al quinto piano, no? Salirò. Busso alla porta, se riesco a trovarla. Oppure chiedo ai vicini. La signorina Moore, la ragazza coi capelli rossi, è stata via una settimana circa… l’ha vista questa sera? Io non ho visto niente. Su per le scale. Dove altro può essere fuggita se non qui? Il suo nido. Il suo eremitaggio.

Al quarto pianerottolo si fermò. Gli scagnozzi di Gomez l’avevano seguito fin lì? Senza dubbio. Sorvegliandolo da vicino. Forse strisciavano su per le scale dietro di lui, per non perderlo di vista. Era possibilissimo che qualche inserviente del Centro Riab fosse in quel momento un piano o due sotto di lui, immobile, in attesa che riprendesse a salire. Quando io faccio un passo lui fa un passo. Quando io mi fermo lui si ferma. E così saliamo. Afferrando la balaustra, Macy si sporse per metà e sbirciò nel pozzo delle scale. In quell’oscurità era impossibile essere sicuri. Qualcuno aveva ritirato in fretta la testa, laggiù? Controlliamo. Aspettiamo un minuto, poi guardiamo di nuovo. Eccolo. Ma ancora non ne era certo. Be’, al diavolo. Non mi importa se mi seguono o no. Saliamo. Passo. Passo. Alt. Ascolta. Questa volta sono sicuro di aver sentito qualcosa dietro di me. È rassicurante sapere che mi seguono dovunque vada. Su.

Si fermò di nuovo sul pianerottolo del quinto piano. Doppia fila di porte che si restringe all’infinito. Lissa dietro una di queste. Forse sarebbe meglio avvertirla che era venuto a cercarla. Forse uscirà sul corridoio e non dovrò andare a bussare a tutte le porte. Un respiro profondo. Emettendo il più forte segnale mentale che gli riuscì, sperando che fosse sulla lunghezza d’onda di lei. Lissa. Lissa. Sono io, Paul, sono vicino alle scale. Sono venuto a prenderti, tesoro. Mi senti, Lissa?

Nessuna risposta.

Okay. Adesso guardiamo. Cominciò a percorrere il corridoio, studiando le porte senza volto. In un buco come questo, non si mettono targhette con il nome. Non riusciva a ricordare dove fosse la sua stanza. Alla fine del corridoio, lontano dalle scale, ma c’erano dozzine di porte. Eccone una che potrebbe essere quella giusta. Fece per bussare ma si trattenne. Vergogna? Paura? Gente strana e selvaggia abita questi slum. Magari non parlano neanche inglese. E io che vengo a disturbare il loro misero pasto. Ma se non busso non la troverò mai.

Ancora una volta sollevò la mano. No. Olovisione al massimo volume, lì dentro. Non poteva essere lei. Andrò avanti. Qui? No, in questo stanno cuocendo qualcosa. Calamari al curry. Polpette di ragno. Lissa? Lissa? Dove sei?