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— Anche se comporta dei pericoli per me?

— Anche se comporta dei pericoli per lei.

— Capisco — disse Macy. — Lei pensa: tanto è una costruzione, anche se viene cancellato, cazzi suoi. La cosa importante è prendere Hamlin. Niente da fare, dottore. Non intendo recitare la parte del passante innocente che viene steso mentre lei e Hamlin fate a revolverate. Mi stia lontano.

— Macy…

Macy riattaccò. L’immagine di Gomez si contrasse e sparì come una foto risucchiata da un gorgo. Macy inghiottì il resto del bourbon, lasciò cadere il bicchiere e si guardò intorno alla ricerca dei vestiti. Si rendeva conto che la sua conversazione con Gomez aveva prodotto un pericoloso cambiamento nella sua situazione. L’uomo del Riab gli aveva notificato che avrebbero preso Hamlin, a prescindere dai rischi che ciò poteva comportare per chi abitava il corpo di Hamlin. Poteva aspettare pacificamente l’ambulanza, naturalmente. Lasciarsi trasportare al Centro Riab. Sperando che Gomez riuscisse a far fuori Hamlin prima che Hamlin facesse fuori lui. Già: sperando! Conosceva Hamlin. Non si erano divisi lo stesso cervello per niente, in tutte quelle settimane. E sapeva che se Hamlin fosse venuto alla superficie e si fosse ritrovato al Centro, pronto per essere nuovamente decostruito, sarebbe esploso in una furia distruttrice. Muoia Sansone con tutti i filistei. Se Hamlin non poteva avere il corpo, avrebbe fatto in maniera che non lo avesse nessun altro. Perciò non aveva senso arrendersi a Gomez, non adesso. Il suo fatalismo di mezz’ora prima era sparito. Non voleva morire e neppure rischiare la morte. Non sapeva bene per cosa dovesse vivere, ma non importava. Adesso doveva scappare. Doveva darsi alla macchia.

Era calata la sera. Ogni cosa era avvolta in una peculiare luce grigia e sbiadita. Giunto alla fine del vicolo, dopo essere uscito di casa, Macy guardò in tutte le direzioni. Sentendosi vagamente assurdo. Quel nascondersi era così melodrammatico, così sciocco. E se Gomez avesse avuto un uomo all’ingresso principale? Non era solo paranoia. Manderanno degli occhi volanti a cercarmi, massimo allarme, tutti gli aeroporti sorvegliati. E dove posso andare? Gesù, dove posso andare? Macy avrebbe voluto ridere. Bel fuggiasco. Cosa farò, mi accamperò nel Central Park? Mangiando scoiattoli e ghiande?

Pensò di rifugiarsi nella squallida pensione dove aveva abitato Lissa. Con un doppio vantaggio: avrebbe potuto trovarla a casa, la sua sola amica, la sua sola alleata, e in ogni caso, quel posto era un buco talmente schifoso, che sarebbe stato fuori dalla portata dei sistemi computerizzati di ricerca. Nascosto in un fatiscente sotterraneo pre-tecnologico. Ma c’era un grosso svantaggio. Gomez, sapendo di Lissa, sapendo che il suo appartamento era il posto più logico dove sarebbe andato, l’avrebbe certamente fatto sorvegliare. Troppo rischioso. Dove allora? Non lo sapeva.

Camminò verso nord. Tenendosi rasente alle case, cercando di non attirare l’attenzione. Una spalla più alta dell’altra, come per nascondersi la faccia. Verso nord, a caso, mentre la notte scendeva. Ma forse non così a caso. Si rese conto che i suoi passi lo stavano conducendo lungo la Broadway, oltre il ponte, a Nord Manhattan. Verso l’unico altro punto cardinale della sua bussola: gli uffici della rete.

Pietre miliari del suo esiguo, sbrindellato passato. Qui aveva camminato in quel mattino di maggio, a disagio e speranzoso. Uno-due-uno-due. Passo. Passo. Sentendosi goffo e incerto dentro il suo nuovo corpo. Cercando di essere naturale. Così cammina Paul Macy. Orgogliosamente, lungo la maledetta strada. Spalle squadrate. Pancia in dentro. La fortuna ti aspetta. Un secondo viaggio, un secondo inizio. Il brutto sogno è finito; adesso sei sveglio. Passo. Passo. Fermandosi bruscamente, si voltò a sinistra e guardò la sua immagine riflessa su un pilastro lucido come uno specchio accanto all’ingresso di un edificio adibito a uffici. Faccia standard anglosassone, con guance larghe e labbra sottili. E la ragazza che stava camminando alle sue spalle, presa alla sprovvista dalla sua improvvisa fermata, gli venne addosso. Nat, disse. Nat Hamlin, per l’amor di Dio! Il lungo ago freddo che si infilava nel suo occhio. Cortesemente ma con fermezza le diceva: mi spiace, lei si sbaglia. Mi chiamo Paul Macy. La gente passava senza sosta accanto a loro. Lei era alta ed esile, con lunghi capelli rossi, lisci, inquieti occhi verdi, lineamenti delicati. Attraente, in una maniera stanca e fragile. Gli diceva di non prenderla in giro. Lo so che sei Nat Hamlin. Si protese verso di lui, le dita che affondavano fino all’osso del suo polso destro, e Macy avvertì una strana sensazione alla cima del cranio. Una specie di intrusione. Un pizzicore. Un leggero calore. Insieme a esso ci fu un fastidioso offuscamento della personalità, una duplicazione dell’io. Il primo riemergere di Hamlin, solo che lui allora non lo sapeva. Si appoggiò al fianco dell’edificio con una mano e con l’altra le fece segno di andarsene. Vai via. Via. Fuori dalla mia vita. Chiunque tu fossi, non c’è più posto ora.

E si affrettò in direzione degli uffici della rete. Isolato dopo isolato, ed eccoli. Una nera torre arcigna. Pareti senza finestre. Non entrò. Non adesso, certo non adesso. Fredericks. Griswold. Loftus. I miei colleghi. Smith o Jones. Quell’Hamlin nell’angolo. Uno dei miei preferiti, disse Griswold. Un regalo della mia prima moglie, dieci anni fa, quando Hamlin era ancora uno sconosciuto. Tossendo. Se non vi spiace… un po’ di acqua fredda. Perdonatemi. Sapete, è il mio primo giorno fuori. La tensione. No, staremo lontani dagli uffici della rete questa sera.

E lì, l’angolo fra Broadway e la 227. Dove l’aveva incontrata quel lunedì sera. Che camminava in un piccolo cerchio. Una zona chiusa di tensione sulla strada affollata. Guardandolo con un misto di stupore e felicità. Macchie di colore che punteggiavano le sue guance. Le palpebre che sbattevano; ha paura di me, si rese conto d’improvviso. Oh, Nat, grazie a Dio sei venuto. No, disse lui, stabiliamo questo una volta per tutte. Io mi chiamo Paul Macy. Cosa vuoi? Non possiamo parlare qui, disse lei. In mezzo alla gente. Per strada. Dove, allora? A casa tua? Lui scosse la testa. Assolutamente no. La mia, allora. Possiamo arrivarci in quindici minuti. È tutto sporco, ma… disse lei, e lui disse: Cosa ne dici di un ristorante? C’è un ristorante del popolo a due isolati da qui. Ci vado spesso. Lo conosci? No. Potremmo andare lì, disse lei. Sì.

Potrei tornarci. Adesso. Adesso. Il richiamo improvviso della fame. Due isolati. Camminò in fretta. Una spalla più alta dell’altra. Raggiunse il ristorante. Una spartana facciata socialista, una vetrina spoglia. Dentro, uno stanzone lungo e stretto, con pareti di ottone annerito e un fascio di fili luminosi che lampeggiavano difettosamente intrecciati al soffitto di paglia. E va bene. Mangiamo qualcosa. Lì dentro aveva cenato con Lissa quella sera. Si era alzato, voltato, allontanato da lei. E il suo grido. No! Torna indietro! Paul! Paul! Nat! Le sue parole che balzavano attraverso il golfo che li divideva come frecce. Sei centri. San Sebastiano che cade fra i tavoli del ristorante. Il cervello in fiamme. E la voce di Hamlin, che parlava distintamente da un punto appena sopra il suo orecchio sinistro e diceva:… Come puoi piantarla qui in questa maniera, lurido bastardo?