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Dunque è qui che ti sei manifestato la prima volta? Molto bene. Entriamo.

Pensava di essere affamato, e caricò abbondantemente il vassoio di carne, verdure, panini e altro. Ma quando si sedette a uno dei lunghi tavoli, scoprì di non avere alcun desiderio di cibo. Mangiucchiò un poco. Fissò il vuoto, e si isolò dalla realtà circostante. Che pace. Potrei starmene qui seduto per sempre. Ma qualcuno gli stava toccando la spalla. Una spinta rapida, impertinente. Poi un’altra. Perché non mi lasciano in pace? Uno dei tirapiedi di Gomez, forse. Se non gli presto attenzione forse se ne andrà. Cercò di affondare di più nell’isolamento. Un’altra spinta, più insistente. Una voce roca e aspra. — Ehi. Tu, vuoi guardarmi un secondo? Sei fumato o cosa? — Con riluttanza Macy ritornò alla realtà. Una ragazza grassa, puzzolente, con un vestito grigio era in piedi accanto a lui. La sua faccia era piatta come quella di una mongola, ma la pelle era bianca, gli occhi non a mandorla. Disse: — C’è una ragazza di sopra che ha bisogno di aiuto. Tu sei quello che fa al caso.

— Di sopra? Ragazza?

— Sì, tu. Ti conosco. Sei stato qui due o tre settimane fa con quella ragazza, quella con la testa rossa, quella Lisa. Sei quello che è caduto, col naso per terra, ti abbiamo dovuto portare fuori, io e la rossa e l’autista di taxi. Lisa si chiama.

— Lissa — la corresse Macy, sbattendo le palpebre.

— Lisa, Lissa, non so io. Senti, lei ti ha aiutato, adesso tu aiuta lei.

Una pellicola galleggiante di memoria. In piedi accanto alla macchina di credito alla fine del bancone, la volta prima, autorizzandola ad addebitargli dieci dollari per la cena. E una ragazza dalla faccia piatta che faceva la coda dietro di lui, che sbuffava con disprezzo. Pagava troppo? Troppo poco? Quella ragazza.

— Dov’è? — chiese Macy.

— Te l’ho detto. Di sopra. È venuta ieri, e piangeva un sacco, faceva un gran casino. Alla fine è svenuta. L’abbiamo portata in una stanza, ed è ancora lì. Non mangia. Non parla. Tu la devi conoscere, perciò va ad aiutarla.

— Ma dove? Di sopra, hai detto.

— La cooperativa popolare, testa dura — disse la ragazza grassa. — Dove altro? Dove altro credi che sia? — E se ne andò.

14

La cooperativa popolare, testa dura. Dove altro? Abbandonando il vassoio pieno, uscì e si guardò intorno. Naturalmente: c’era un albergo associato con il ristorante. O viceversa. Condividevano l’edificio. Facciata nuda, a piastrelle verdi; un ingresso separato, ascensore per la portineria, al secondo piano. In una grande hall bassa e vuota, troppo illuminata, uno schermo offriva i dati essenziali sui residenti dell’albergo. Macy aggrottando la fronte guardò sulla M. Moore, Lissa? Niente da fare. Guardò la L, e sì, trovò una "Lisa". Niente cognome. Arrivata il 3 giugno alle undici di sera, stanza 1114. C’è una ragazza di sopra che ha bisogno di aiuto. E come arrivarci di sopra?

Una porta alla sua sinistra si aprì, ed entrò un cieco, muovendosi con sicurezza fra tavolo, sedie e altri ostacoli. Il sonar montato sulla sua testa che faceva boing boing boing. Giacca marrone chiaro, pantaloni gialli, faccia grassoccia, occhi semichiusi che mostravano solo il bianco. — Mi scusi — disse Macy — può dirmi dove si trova il pozzo? — Il cieco, senza fermarsi, indicò sopra la sua spalla destra e disse: — L’ascensore è laggiù — e sparì attraverso una porta alla destra di Macy. Macy entrò nell’altra porta. Ascensore. Undicesimo piano.

Stanza 1114.

Niente raffinati sistemi di comunicazione o scanner, lì. Solo una semplice porta di legno. Bussò e non ottenne risposta. Bussò ancora. — Lissa? Sono io, Paul. — Toc toc. Silenzio. Mentre stava lì, incerto sul da farsi, una ragazza uscì dalla porta di fronte, una ragazza magra e ossuta, nuda, un asciugamano gettato sulla spalla, le costole in evidenza, le anche prominenti, piccoli seni appuntiti. — Cerchi Lisa? — chiese, e quando Macy annuì, la ragazza disse: — È dentro. Entra.

— Ho bussato. Non risponde.

— Non risponde mai. Entra.

— La porta…

— Non ci sono serrature qui, fratello. — La ragazza gli strizzò l’occhio e si avviò lungo il corridoio. La spina dorsale che risaltava sotto la pelle. Aprì un’altra porta; rumore di acqua che scorreva: le docce, presumibilmente. Non ci sono serrature qui, fratello. Okay. Provò la maniglia della stanza 1114, e scoprì che in effetti era aperta.

— Lissa? — disse.

Una cella doveva avere più o meno quell’aspetto. La sua stanza al Centro Riab era stata di gran lusso, al confronto. Un lungo letto stretto, una brandina più che altro. Una sedia in plastica verde. Un basso cassettone marrone. Un lavandino scheggiato, bianco-giallastro. Una fessura di finestra, dai vetri sporchi. Pavimento spoglio, luci nude e intense. Anche Lissa era nuda, sul letto, le ginocchia sollevate, strette fra le braccia. Sembrava emaciata, quasi fragile, come se avesse perso quattro o cinque chili nelle trentasei ore in cui non la vedeva. I capelli erano una massa arruffata, gli occhi arrossati. La stanza puzzava di sudore. I suoi vestiti erano gettati in un mucchio accanto alla finestra; l’armadio, con l’anta spalancata, era vuoto; accanto al lavandino c’era la valigia verde e malconcia che aveva usato per portare le sue cose dal vecchio appartamento. I fianchi erano rigonfi; non si era data la pena di disfarla. Quando lui entrò, mosse lentamente la testa dalla sua parte, e lo guardò senza guardarlo. Poi tornò a fissare il cassettone marrone.

Macy passò accanto al letto e cercò di aprire la finestra, ma non c’era modo di farlo. Pronunciò ancora una volta il suo nome; lei non diede segno di averlo sentito. Inginocchiandosi accanto a lei, le prese in mano uno dei piedi, lo sollevò di una decina di centimetri, lo guardò ricadere pesantemente, fece scivolare la mano fino alla parte carnosa del polpaccio. La pelle bruciava. La febbre la stava consumando. Arrivò con la mano sulla coscia. Le sue dita si fermarono appena al di sotto del cespuglio castano dorato, ma lei sembrò non accorgersene. Le scosse la coscia. Niente. Le accarezzò i seni, ne strinse uno nella mano. Niente. Strofinò con il pollice il capezzolo. Zero. Le passò le dita davanti agli occhi. Lei sbatté le palpebre una volta. — Lissa? — disse per la terza volta. Lei era persa, avvolta in un bozzolo di introspezione. Al di là dei suoi richiami. Chiunque poteva farle qualsiasi cosa, e probabilmente lei non avrebbe reagito. Come raggiungerla? Non c’era nessun modo, nessun modo.

Andò alla finestra, rivolgendole le spalle.

Molto tempo dopo, lei disse, con voce sottile e lontana: — Le voci nella testa mi facevano impazzire. Rimbalzavano dalle pareti. Non potevo restare.

Macy si voltò. Il volto di Lissa era del tutto inespressivo. Fissava sempre il cassettone. Le sue parole avrebbero potuto essere quelle di un ventriloquo. — Non dovevi scappare — disse. — Io cercavo di aiutarti.

— Non potevi darmi nessun aiuto. E neppure io potevo aiutarti. Ci stavamo distruggendo a vicenda.

— No.

— Ti ho aperto ad Hamlin.

— Non importa. Abbiamo bisogno l’uno dell’altra.

— Dovevo andarmene — disse lei. — Mi sentivo soffocare, dovevo uscire. Così me ne sono andata. Sono venuta qui.

— Perché?

— Per nascondermi. Per riposare. — Parole mormorate, come soffi di vento. — Adesso vattene. Sento di nuovo le voci. La pressione che aumenta. Non la senti? La pressione. La pressione che aumenta.

Lui le prese la mano. La febbre la consumava. I muscoli del braccio erano completamente rilassati. Come tenere in mano un pezzo di corda. — Sei ammalata Lissa, fisicamente ammalata. Lascia che chiami un dottore. — Non era sicuro che l’avesse sentito. Stava allontanandosi di nuovo da lui. — Chiamo il dottore — disse. — Va bene.