Poi cominciò a mangiare, come se fosse a digiuno da settimane. La maniera con cui divorava il cibo, del tutto inconsapevole della propria voracità, lo affascinava: era come guardare un incendio spazzare un campo secco. La testa protesa in avanti, le mascelle che lavoravano freneticamente. Rumori di masticazione. Denti bianchi che balenavano. Lui rimase seduto immobile, inalando la sigaretta, cercando senza successo di infilzare un pezzo di alga con la forchetta. Lei alzò gli occhi. — Non hai fame? — chiese con la bocca piena.
— Non quanto te, suppongo.
— Non badare a me.
Lissa aveva i polsi sporchi, e c’era un velo di sudiciume visibile sul suo collo, indossava la medesima giacca blu del primo giorno in cui l’aveva vista. Ancora una volta nessun trucco. Le unghie erano spezzate. Ma non era in disordine soltanto esteriormente: emanava un senso di disgregazione interiore che lo terrorizzava. Evidentemente un tempo era stata una ragazza molto bella, forse straordinariamente bella. Tracce di questa bellezza ancora rimanevano. Ma aveva un aspetto disseccato, consumato, come se una febbre dell’anima avesse consumato la sua sostanza. Gli occhi, grandi e iniettati di sangue, non rimanevano mai fermi, svolazzando come uccelli da un posto all’altro. Guance più incavate del dovuto. Le mancavano circa cinque chili al peso ideale, calcolò. E aveva bisogno di un bagno. Spense il suo mozzicone e si tagliò un pezzo di bistecca. Filetto di cartapesta. Inghiottì a fatica.
Lissa disse: — Così va meglio! Un po’ di cibo in pancia, finalmente.
— Perché avevi così fame?
— È sempre così. Brucio energie.
— Sei ammalata?
Lei alzò le spalle. — Chi lo sa? — Lo fissò per un momento negli occhi. — Sto cercando di pensare a te come Paul Macy. Non è facile, stando seduta con Nat Hamlin di fronte.
— Nat Hamlin non esiste.
— Davvero non ti ricordi di me?
— Zero — disse lui.
— Merda! Ma cosa ti hanno fatto al Centro Riab?
Lui disse: — Hanno imbottito Nat Hamlin di dissolvitori di memoria, finché di lui non è rimasto più niente. Solo una specie di zombie, capisci? Un corpo vuoto e sano. La società non vuole sprecare un bel corpo sano. Poi hanno costruito me dentro la testa dello zombie.
— Costruito? Cosa vuoi dire con "costruito"?
— Mi hanno creato un’identità. — Chiuse un momento gli occhi. Gli sembrava di avere il colletto troppo stretto. Una sensazione di soffocamento. Non era previsto che spiegasse cose del genere. Il mondo doveva dare tutto quanto per scontato. — Hanno costruito il passato, un insieme di eventi in cui possa muovermi come se fossero realmente accaduti. Per esempio che sono cresciuto a Idhao Falls, e mi sono trasferito a Seattle a dodici anni. Mio padre era ingegnere e mia madre insegnante. Adesso sono morti entrambi. Né fratelli né sorelle. Facevo collezione di francobolli africani, andavo a caccia e a pesca. Sono stato all’università, l’UCLA, classe ’93, e mi sono laureato in filosofia e comunicazioni. Due anni di servizio civile, in Bolivia ed Ecuador, facendo la voce fuori campo per il Canale della Repubblica Del Popolo. Poi vari lavori TV e OV in Europa e negli Stati, e adesso qui a New York. Eccetera eccetera.
— Mio Dio — disse lei. — Ed è tutto falso?
— Più o meno. Segue la biografia di Nat Hamlin finché può. Riguardo all’età, per esempio. O il fatto che Hamlin si sia rotto una gamba quando aveva ventisei anni, e questo si vede dall’osso, così mi hanno fatto avere un incidente di sci per quell’anno.
— Cosa succederebbe se controllassi i registri dell’UCLA, cercando Paul Macy nel ’93?
— Lo troveresti. Con un asterisco Riab, per indicare che è solo una registrazione fittizia che copre un’identità retroattiva. La stessa cosa troveresti nel registro delle nascite di Idhao Falls. Fanno un lavoro molto accurato.
— Cristo — disse Lissa. E rabbrividì. — È una cosa raccapricciante! Sei davvero una persona interamente nuova.
— Non so fino a che punto sono una persona. Ma nuovo di sicuro.
— Allora non hai nessuna idea su chi sia io?
— Posavi per Nat Hamlin, vero?
Lei parve sorpresa. — Come fai a saperlo? Non ho mai detto a nessuno…
— Quel giorno che mi hai fermato per la strada — disse lui — mentre parlavamo, ho visto per un attimo la tua immagine, nuda in uno studio, e io ero chino su una tastiera complicata e ti dicevo di gridare. Come uno psicoscultore che cerchi di ottenere un effetto emotivo. È durata forse mezzo secondo, poi è sparita. — Si inumidì le labbra. — È stato come se un pezzo della memoria di Nat Hamlin venisse alla superficie.
— O un pezzo della mia mente che entrava nella tua — disse lei.
— Eh?
— Succede, non riesco a tenerlo sotto controllo. — Una risatina acuta. — Da qualsiasi parte ti sia venuta, era vera. Ero una delle modelle di Nat Hamlin. Dal gennaio all’agosto del ’06, quando lavorava alla sua Antigone 21. Quella che ha comprato il Metropolitan. La sua ultima grande opera, prima del crollo. Sai del suo crollo?
— Qualcosa. Non parlarmene. — Sentiva un cerchio di fuoco intorno alla testa. Il semplice fatto di stare per tanto tempo vicino a qualcuno appartenente alla sua vecchia vita era doloroso. — Mi dai un’altra oro?
Lei gli porse la sigaretta e disse: — Sono stata anche la sua amante, per tutto il cinque e gran parte del sei. Diceva che avrebbe divorziato e mi avrebbe sposato. Come Rembrandt. Come Renoir. Innamorato della modella. Solo che invece perse la testa. E cominciò a fare tutte quelle cose.
Macy, d’improvviso vulnerabile, cercò di fermarla sollevando una mano, ma non c’era modo di arrestare il flusso delle sue parole. — L’ultima volta che l’ho visto è stato il Giorno del Ringraziamento del 2006. Al suo studio. Litigammo e mi buttò giù dalle scale. — Fece una smorfia. Nella mente di Macy apparve un’immagine lancinante: un volo senza fine, la ragazza che cadeva, cadeva, le gonne intorno alle cosce, le gambe che si agitavano, le braccia che cercavano di afferrare qualcosa, il grido che diventava sempre più flebile, l’impatto improvviso. Il rumore di qualcosa che si spezzava. — Sei settimane in ospedale, con la pelvi spezzata. Quando sono uscita gli davano la caccia dal Connecticut al Kansas. Poi…
— Basta! - urlò Macy. La gente si voltò a guardarli.
Lissa si ritrasse da lui. — Scusa — disse, ripiegandosi su se stessa, tremante. Aveva le guance arrossate per la vergogna e l’eccitazione. Dopo un momento disse a bassa voce: — Fa molto male quando parlo di lui?
Un cenno di assenso. Silenzio.
— Hai chiesto di vedermi perché sei nei guai — disse lui alla fine.
— Sì.
— Ti saresti davvero uccisa se non fossi venuto?
— Sì.
— Perché?
— Sono sola. Non ho nessuno. Sto impazzendo.
— Come fai a saperlo?
— Sento delle voci. Le menti altrui entrano nella mia. E la mia nelle loro. Percezione extrasensoriale.
— ESP? — disse lui. — Come… la telepatia?
— Telepatia. Ecco cos’è. ESP. Telepatia.
— Non credevo che esistesse davvero.
Una risata amara. — Puoi scommeterci il culo. Seduta di fronte a te. In carne e ossa.
— Sai leggere nella mente? — chiese lui, sentendosi come se brancolasse in un sogno.
— Non esattamente. Solo toccare un’altra mente. Non lo posso controllare coscientemente. È come qualcosa che entra e che esce. Voci che ronzano nel mio cervello, una parola, una frase, un’immagine. Mi succede da quando avevo dieci anni, dodici. Solo che adesso è molto peggio. Molto, molto peggio. — Tremando. — Gli ultimi due anni. Un inferno.