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— Perché?

— Non so più chi sono, un sacco di volte — disse lei. — Mi capita di essere cinque o sei persone insieme. Sento un rumore sibilante nella testa. Un ronzio. Voci. Come interferenze, solo che qualche volta filtrano delle voci. Ricevo tutte queste emozioni strane, e mi fanno paura. Non so se è la mia immaginazione o cosa. C’è qualcuno a due tavoli da qui che vuole violentarmi. Vorrebbe averne il coraggio. Nella sua testa sono nuda e sanguinante, con le gambe spalancate, legata al letto. E alla mia sinistra c’è una donna che trasmette odore di merda. Mi vede come una specie di stronzo gigantesco seduto qui. Non so perché. E tu…

— No — disse lui. — Non dirmelo.

— Non è niente di brutto. Pensi che sono sporca e vorresti portarmi a casa e farmi un bagno. E poi scoparmi. Non mi dispiace. Lo so di essere sporca. E piacerebbe anche a me andare a letto con te. Ma non riesco a sopportare tutte queste voci che si incrociano nel mio cervello. Sono indifesa, Nat, indifesa davanti a ogni pensiero che…

— Paul.

— Come?

— Chiamami Paul. È importante per me.

— Ma tu sei…

— Paul Macy.

— Ma in questo momento tu mi arrivavi come Nat Hamlin. Dal profondo di te stesso.

— No. Hamlin non esiste più. Io sono Paul Macy. — Un senso di nausea. I fili luminosi che dondolavano e sibilavano sopra la sua testa. Si accorse di averle preso le mani fra le sue. Dita screpolate contro i suoi polpastrelli. Disse: — Se soffri tanto perché non cerchi aiuto? Forse c’è una cura per l’ESP. È questo che vuoi, una cura? Potrei portarti dalla dottoressa Iannuzzi, è una donna molto comprensiva, e lei potrebbe mandarti nell’ospedale psichiatrico giusto, e…

— E mi farebbero l’elettroshock — disse Lissa. — Dislocazione di ricordi, come se fossi una criminale. Mi farebbero il lavaggio del cervello, cercando di curarmi. Non resterebbe più niente di me. Ho paura delle cure. Non ci sono mai andata, e non voglio andarci.

— Cosa vuoi allora?

— Non lo so.

— Allora cosa dovrei fare io per te?

— Non so neppure questo, Paul. Sono completamente suonata, perciò è inutile farmi domande razionali. — I suoi occhi luccicavano in maniera inquietante. Era malata, malata. — Quello che dovresti fare — disse lei — è di tagliare la corda, subito, come hai voluto fare dal primo momento in cui mi hai vista. Solo non farlo. Dio, ti prego, non farlo. Aiutami. Aiutami.

— Come?

— Stai con me un po’. Sono sola. Mi sono isolata dal mondo intero. Sai come vivo? Non ho un lavoro. Non ho più amici. Mi guardo nello specchio e vedo uno scheletro. Sto seduta a casa, e aspetto che le voci se ne vadano, e quelle mi urlano e urlano fino a spaccarmi la testa. Vivo con l’assistenza sociale. Poi me ne vado a fare una passeggiata, un giorno, e arrivo fino in centro, e vado a sbattere contro uno che passa per strada, e quello si volta, ed è Nat Hamlin, l’unico uomo che abbia mai amato. Solo che non è più Hamlin, ma è Paul Macy, mi dice, e… — Tirò un respiro. — E va bene. Non mi conosci per niente, e io non posso dire di conoscere te. Ma conosco il tuo corpo. Ogni centimetro. È una cosa familiare per me, un punto di riferimento, qualcosa a cui posso aggrapparmi. Lascia che mi ancori. Lascia che mi aggrappi. Sto affogando, Paul, e forse tu puoi tenermi a galla, per amore di quello che significavo per quello che tu eri. Forse. Forse per un po’. Non me lo devi, non mi devi nulla. Puoi alzarti e uscire, e ne avresti ogni diritto. Ma non farlo. Perché ho bisogno di te.

Sudato, intontito, i pugni serrati sotto il tavolo, Macy provò una folle ondata di compassione per lei. Aveva voglia di dire: Sì, certo, farò tutto quello che posso per te. Vieni a casa con me. Fatti un bagno, fumiamoci qualche oro e parliamo, parliamo di questa tua telepatia, di questa illusione. Non perché ti abbia mai conosciuta. Non perché le cose che sono successe fra te e Nat Hamlin ti diano qualche diritto su di me. Ma solo perché sei un essere umano che soffre e ti sei rivolta a me per aiuto, e come faccio a rifiutarmi? Un atto di pietà. Sì, sì, sarò la tua ancora di salvezza.

Invece disse: — Mi stai chiedendo molto. Neanche io sono l’individuo più stabile che ci sia al mondo. E per ordine dei dottori devo tenermi lontano da gente che abbia avuto a che fare con Nat Hamlin. Potresti procurarmi un sacco di guai. E io a te. Credo che i rischi per entrambi noi siano superiori al guadagno.

— Vuol dire che non vuoi essere coinvolto?

— Temo di sì.

— Mi dispiace averti fatto perdere tanto tempo — disse lei. Con voce sorda. Senza cambiare espressione. Senza crederci veramente, forse.

— Non ho perso tempo. Vorrei solo essere nelle condizioni di poterti aiutare. Ma un Riab vive lui stesso sull’orlo del collasso, all’inizio. Deve costruirsi una vita nuova. Perciò, quando chiedi a uno come me di assumersi un fardello in più… — E va bene, Macy. Smettila di spiegarti. Alzati ed esci prima che lei cominci a piangere e tu cominci ad ascoltarla di nuovo. Alzati. Non le devi niente. Hai i tuoi guai, e non sono piccoli. Si stava alzando. La ragazza che lo guardava, incredula. Le rivolse un sorriso falso, sapendo che un sorriso di qualsiasi genere è fuori luogo quando stai condannando una a morte. Si volta. Si allontana, fra i tavoli del ristorante del popolo, oltre il bancone, i crauti e le torte di alghe. Altri dieci passi e sei fuori.

Un grido dal fondo della sala.

— No! Torna indietro! Paul! Paul! Nat!

Le sue parole balzarono attraverso il golfo che li divideva come frecce. Sei centri. Zac zac zac zac zac zac! L’ultima mortale, dalla schiena al petto. Barcollò. San Sebastiano che cade fra i tavoli del ristorante. Il cervello in fiamme, qualcosa di molto strano che gli succedeva dentro, come due emisferi che si separassero e assumessero un’esistenza indipendente. Poi una voce che parlava distintamente da un punto appena sopra il suo orecchio sinistro e diceva:

Come puoi piantarla qui in questa maniera, lurido bastardo?

Cadde pesantemente a terra, su un gomito. Una fitta lancinante di dolore. Entro questo cono di rosso tormento, una curiosa limpidezza di percezione.

Chi l’ha detto? chiese, perdendo coscienza. E affondando, sentì:

Sono stato io, Nat Hamlin. Il tuo fratello gemello Nat.

4

Era di nuovo al lavoro nel suo studio, dopo troppo tempo. Tutto il suo equipaggiamento era coperto da un sottile strato di polvere. Forse i delicati meccanismi interni sono rovinati, o almeno imprecisi. Cerco di costruire la struttura di un uomo e finisco con uno scimpanzé, qualcosa del genere. Controllò attentamente tutti i quadranti di calibrazione: niente fuori posto, sorprendentemente. Solo polvere. Per forza, dopo tanti anni. C’era da meravigliarsi che non fossero stati distrutti dai vandali. Fottuti vandali dappertutto. E visigoti. Sfiorò la tastiera principale. Quello sarebbe stato il suo capolavoro, una composizione di gruppo, l’equivalente contemporaneo dei Cittadini di Calais. Ma frammentario, intenso, polivalente. Gli avrebbe dato un titolo modesto, qualcosa come La condizione umana.

Un fottuto casino mettere insieme tutti i modelli contemporaneamente. Ma le interazioni di gruppo sono importanti: merda, sono l’essenziale! Ed eccoli tutti lì, adesso. La grassona del circo, quattrocento chili di ciccia tremolante. Mezza tonnellata di risate. Il ragazzino della cooperativa studentesca, quello con la testa rapata. Gomez, lo strizzacervelli, per dare un tocco di ostilità. La ragazza incinta del supermercato. Togliti i vestiti, cocca, fai vedere la pancia. L’ombelico che sporge come una maniglia. E il vicepresidente della banca, molto molto per bene, lo faremo andare un po’ su di giri quando sarà ora di cominciare. Poi il vecchio modello in gesso, dei tempi di scuola, l’Apollo del Belvedere senza uccello. Una vera acrobazia tecnica cercare di ricavare una psicoscultura da un pezzo di gesso. Mancano le reazioni adeguate: una prova di maestria. E un gatto, quello con un occhio solo del piano di sotto, bianco e grigio, con una dozzina di artigli per zampa, dall’aspetto che ha.