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Ethenielle lanciò un’occhiata a Kalyan Ramsin — questi aveva fermato il proprio cavallo dietro Tenobia e non aveva detto nulla, sembrava che a malapena respirasse. Gli lanciò solo un’occhiata, e per un istante quell’aquila ingrigita socchiuse gli occhi. In quel momento lei vide qualcosa che non aveva più visto dalla morte del suo Brys, vide un uomo che non guardava una regina ma una donna. La sorpresa fu come un colpo che le tolse il respiro. Lo sguardo di Tenobia saettò da suo zio a Ethenielle, un lieve sorriso di soddisfazione dipinto in volto.

Ethenielle si sentì oltraggiata. Se non fossero bastati gli occhi di Kalyan, quel sorriso rendeva gli intenti della donna chiari come acqua di sorgente.

La sfacciata Saldeana voleva far sposare quell’uomo con lei? Quella ragazzina presumeva che... All’improvviso, il senso di colpa prese il posto della rabbia. Lei stessa era ancor più giovane quando aveva arrangiato il secondo matrimonio di sua sorella Nazelle. Per il bene della nazione, eppure alla fine Nazelle aveva preso ad amare lord Ismic nonostante tutte le proteste iniziali. Ethenielle pianificava i matrimoni altrui da così tanto tempo che non aveva mai pensato di poter essere considerata un ottimo ‘partito’.

Guardò di nuovo Kalyan, più a lungo. Il volto coriaceo era di nuovo una maschera di rispetto, eppure lei aveva ancora in mente gli occhi che aveva visto poco prima. Il suo nuovo sposo doveva essere un uomo forte, ma Ethenielle aveva sempre preteso una possibilità d’amore per i matrimoni dei suoi figli, e spesso anche per quelli di fratelli e sorelle, e non avrebbe chiesto di meno per sé stessa.

«Invece di sprecare in chiacchiere la luce del giorno,» disse allora, col fiato più corto di quanto avrebbe voluto «occupiamoci di ciò per cui siamo venuti qui.» Che la Luce mi fulmini, pensò, sono una donna adulta, non una ragazzina che incontra per la prima volta il suo corteggiatore. «Allora?» chiese, e questa volta la sua voce fu debitamente ferma.

Fino a quel momento avevano preso ogni accordo tramite lettere accorte e studiate, e sapevano che avrebbero dovuto modificare i piani adeguandoli alle circostanze reali man mano che si spostavano verso sud. Quell’incontro aveva un unico scopo reale, una semplice e antica cerimonia delle Marche di Confine che, secondo le testimonianze storiche, si era ripetuta solo sette volte dai tempi della Frattura. Una semplice cerimonia che li avrebbe legati al di là di qualsiasi impegno espresso a parole, per quanto solenni. I sovrani si avvicinarono uno all’altro, ancora a cavallo, e i loro accompagnatori si fecero da parte.

Ethenielle sibilò quando, col coltello che portava alla cintura, fece un taglio nel proprio palmo sinistro. Tenobia rise nel fare altrettanto. Paitar ed Easar mostrarono la stessa, tiepida reazione di chi si toglie delle schegge da una mano. Quattro mani si protesero per incontrarsi, si strinsero, il sangue si mischiò gocciolando a terra, imbevendo il terreno pietroso. «Uniti, fino alla morte» disse Easar, e gli altri gli fecero eco. «Uniti, fino alla morte.» Erano legati, dal sangue e dalla terra. Ora dovevano trovare Rand al’Thor. E fare ciò che era necessario. A ogni costo.

Quando fu sicura che Turanna poteva drizzarsi a sedere sul cuscino senza bisogno d’aiuto, Verin si alzò e lasciò da sola la derelitta sorella Bianca, che sorseggiò dell’acqua. O meglio, provò a farlo. I denti di Turanna battevano contro la tazza d’argento, cosa niente affatto sorprendente. L’ingresso della tenda era basso, e Verin dovette accovacciarsi per mettere fuori la testa. La stanchezza le trivellò la schiena quando si piegò. Ma non aveva affatto paura della donna che tremava dietro di lei, avvolta in una tunica nera di lana grezza. Verin l’aveva schermata, e dubitava che Turanna avesse abbastanza forza nelle gambe in quel momento da provare a saltarle addosso, se anche le fosse venuta in mente un’idea così improbabile. Le Bianche non ragionavano in questo modo. In verità, date le sue condizioni, era difficile che Turanna riuscisse a incanalare anche un rivolo di Potere per diverse ore ancora, con o senza schermo.

Il campo degli Aiel si stendeva sulle colline dietro le quali era nascosta Cairhien, tende basse e dal colore della terra che riempivano lo spazio tra i pochi alberi lasciati in piedi così vicino alla città. Diafane nuvole di polvere erano sospese nell’aria, ma gli Aiel non parevano infastiditi né dalla polvere, né dal caldo né dallo sguardo cocente del sole furioso. Il campo era pieno di attività e impegno, simile in questo a qualsiasi città. Verin vedeva uomini che scuoiavano la selvaggina, affilavano i coltelli e preparavano i morbidi stivali tipici degli Aiel, donne che cucinavano sui fuochi da campo, stavano ai forni, lavoravano a dei piccoli telai, badavano ad alcuni dei pochi bambini presenti nell’accampamento. I gai’shain vestiti di bianco correvano in ogni direzione, trasportavano pacchi, battevano i tappeti o si occupavano di muli e cavalli da soma. Nessun negozio, nessun venditore ambulante. carri e calessi, ovviamente. Una città? Piuttosto erano migliaia di villaggi raccolti nello stesso posto, anche se c’erano molti più uomini che donne e, tranne i fabbri che facevano risuonare le loro incudini, quasi tutti quelli non vestiti di bianco portavano le armi. Anche molte donne erano armate.

I numeri erano di sicuro quelli di una grande città, più che sufficienti a racchiudere un piccolo gruppo di Aes Sedai prigioniere, eppure Verin vide una donna con una veste nera che arrancava per strada a meno di cinquanta passi da lei, sforzandosi di trascinarsi dietro una pila di rocce alta fino alla vita e sistemata su una pelle di mucca. Il cappuccio celava il volto della donna, ma nell’accampamento solo le sorelle catturate portavano quegli abiti neri. Una Sapiente passeggiava accanto alla pelle di mucca, illuminata dal Potere che usava per schermare la prigioniera, scortata da due Fanciulle che la frustavano con dei bastoni flessibili a ogni esitazione. Verin si chiese se quella processione era inscenata proprio a suo beneficio. Quella stessa mattina aveva visto Coiren Saeldain che, con gli occhi sgranati e il viso coperto di sudore, risaliva a fatica un pendio con la schiena curva sotto un cesto pieno di sabbia, accompagnata da una Sapiente e due Aiel. Il giorno addietro era toccato a Sarene Nemdahclass="underline" Le avevano ordinato di trasferire l’acqua da un secchio di pelle a un altro usando solo le mani, frustandola perché andasse più veloce e poi frustandola ancora per ogni goccia versata a causa delle frustate di prima. Sarene aveva approfittato di un momento di distrazione per chiedere a Verin il motivo di tutto ciò, anche se non era sembrato che si aspettasse una risposta. E di sicuro lei non era riuscita a dargliene una prima che le Fanciulle la facessero tornare a quell’inutile compito.

Verin trattenne un sospiro. Innanzitutto, non le sarebbe mai piaciuto vedere delle sorelle trattate a quel modo, quale che fosse lo scopo o il motivo, e poi era ovvio che quasi tutte le Sapienti volevano... Cosa? Volevano farle sapere che essere un’Aes Sedai lì non voleva dire nulla? Ridicolo.

L’avevano già chiarito fin troppo bene alcuni giorni prima. Volevano forse dirle che anche a lei poteva toccare la veste nera? Per il momento Verin credeva di essere al sicuro da quell’evenienza, ma le Sapienti avevano ancora un gran numero di segreti che lei non era riuscita a scoprire; uno tra questi, e nemmeno il più importante, era il funzionamento della loro gerarchia. Di sicuro non era il più importante, eppure poteva costare la vita o almeno una manciata di frustate. Una donna poteva dare ordini a un’altra ma anche essere comandata da quest’ultima, e i ruoli potevano invertirsi più volte, il tutto senza uno schema o un motivo che Verin riuscisse a vedere. Tuttavia, nessuno comandava Sorilea, e questa forse era la chiave della salvezza. Per certi versi.