Perché non dormo? Cenci mi guardava sorridendo. –
Perché non dormi? – disse. – Come si chiama la tua fidanzata? – Per fortuna venne Tourn a dirmi che era arrivato il rancio e mi recai nella tana di Moreschi a prendere la mia razione. Lí vi era una confusione insolita: coperte in disordine, sporco per terra, la paglia sparsa assieme a calze e fazzoletti e mutande. Parlavano sottovoce. Giuanin non mi disse niente. Mi guardò e nei suoi occhi cíerano tutte le cose che voleva chiedermi. Tourn non rideva piú e i suoi baffi neri sempre ben curati erano sporchi di muco. Meschini era indaffarato intorno allo zaino. Tutti gli altri facevano qualcosa. Due erano fuori nelle postazioni dei mortai. Solo Giuanin non faceva nulla, stava nella nicchia vicino alla stufa fredda. –
Meschini, – domandai, – perché non fai la polenta? Ho fame; è meglio farla ancora una volta.
Mangiai la mia razione di rancio, ma senza alcun gusto. Arrivò qualche colpo di mortaio attorno alla nostra tana e uno sopra. Ma il nostro bunker era solido e ben fatto: filtrò soltanto un po’ di terra e si ruppero i vetri.
Il rumore del cucchiaio nelle gavette era piú strano dei colpi di mortaio.
Prima di uscir fuori dissi: – Ricordatevi che dobbiamo restare sempre uniti.
Ritornai dal tenente Cenci e assieme ci avviammo verso una postazione. Eravamo soli. – Stasera dobbiamo ripiegare –. Cosí disse. – Sono venuto qui apposta per dirtelo.
Stasera dobbiamo ripiegare. Prendi, fuma. Io ritornerò al mio caposaldo; forse verrà qui il tenente Pendoli, forse dovrai arrangiarti da solo. Le squadre lasceranno il caposaldo una alla volta. La prima si fermerà a metà strada con le armi pronte fra te e me, e aspetterà la seconda per ripartire. Cosí di seguito fino all’ultimo uomo. L’appuntamento è alle cucine per le ore... – e disse un numero che non ricordo. – Ci sarà tutta la compagnia che ti aspetterà. Pensa tu a stabilire il turno per le squadre –. Non risposi nulla e solo quando fu terminata la sigaretta dissi: – Va bene.
Ritornai nella mia tana a preparare lo zaino; mi cambiai con biancheria pulita e lasciai sulla paglia quella sporca e impidocchiata. Cercai di mettermi addosso quanta piú roba potevo senza averne i movimenti impacciati. Mi rimasero due paia di calze e una maglia che cacciai nello zaino assieme al pacchetto di medicazione, ai viveri di riserva, a una scatola di grasso anticongelante e a una coperta da campo. Completai lo zaino con munizioni, in maggior parte bombe a mano. Aiutato da Tourn provai a mettermelo sulla schiena, ma forse era ancora troppo pesante. Bruciai, poi, tutte le lettere e le cartoline che avevo, tranne un piccolo fascio. I libri li lasciai nella tana. «Saranno curiosi i russi di sapere che cosa c’è scritto», pensavo. Ma che male nel compiere queste cose. Dissi forte: – Vestitevi piú che potete ma senza restar stretti. Mettete nello zaino le cose che credete piú necessarie e piú munizioni che potete.
Bombe a mano tante e del tipo piú buono: le O.T.O. o le Breda. Le S.R.C.M. buttatele sotto la neve. Nessuno pensi di andarsene per conto proprio. Dobbiamo restare sempre uniti. Ricordatevi questo, sempre uniti.
– Quando dobbiamo muoverci? – mi chiedevano. –
Stasera, forse –. E chiamai Moreschi da parte e gli dissi:
– Non preoccuparti molto dei mortai, prendili con te, ma non con tante munizioni. Bombe a mano e cartucce.
Tutto andrà bene.
– Allora sergentmagiú, – disse forte Meschini, – è meglio fare la polenta ancora una volta. – È meglio farla ancora una volta, – risposi.
Uscii fuori a ripetere nelle altre tane quello che avevo detto nella mia. Gli alpini chiedevano mille cose e gli occhi domandavano piú che le parole. Attorno a me era un gran punto interrogativo.
Prima di sera il tenente Cenci se ne tornò al suo caposaldo. – Credo non verrà nessuno, – mi disse. – Vecio, sta’ in gamba, non farti sorprendere e buona fortuna.
Arrivederci.
Sentivo tutta la responsabilità che mi gravava addosso. Se un rumore o una cosa qualsiasi avesse fatto notare che noi stavamo per abbandonare il caposaldo, chi sarebbe ritornato a baita? Gli alpini mi guardavano con gli occhi stanchi e pieni di sonno aspettando una mia parola. Cercavo di star sereno e pensavo a quello che avrei dovuto fare nel caso che fosse andata male. Quando venne la notte mandai a chiamare tutti i capisquadra: Minelli, Moreschi, il Baffo, il Rosso della pesante e Pintossi. Chiesi: – Come va? Avete tutto pronto? – Novità N.N., – risposero, – tutto pronto. – La prima a partire, – ordinai, – sarà la squadra di Moreschi. Oltre alle munizioni individuali dovete portare le munizioni per le armi della squadra. Fate caricare gli uomini il piú possibile; le munizioni che rimarranno nascondetele nella neve. Bisogna caricarsi come muli; non sappiamo quello che ci aspetterà. In caso le lasceremo poi lungo la strada quando non ne potremo piú. Appena Moreschi raggiungerà la casa diroccata che c’è fra noi e Cenci, aspetterà con le armi pronte che sia giunta la seconda squadra. Allora ripartirà. La seconda aspetterà la terza e cosí via. Nell’attesa dovete stare con le armi pronte e in silenzio. La seconda a partire sarà quella del Baffo; poi la pesante; poi Minelli; per ultima quella di Pintossi. Io verrò con quella di Pintossi –. Feci ripetere a tutti quello che avrebbero dovuto fare. E ripresi: – Se sentite sparare non preoccupatevi; la squadra che è in movimento raggiunga le cucine; lí ci sarà tutta la compagnia ad aspettare. Il caposquadra dovrà essere l’ultimo a partire. Tenetevi sempre gli uomini vicini e assicuratevi del funzionamento delle armi. Non lasciate i cucchiai nelle gavette, fanno rumore e bisognerà fare tutto nel massimo silenzio. Tutto andrà bene, tenetevi pronti, vi manderò io ad avvisare quando dovrete andarvene. Andate e arrivederci.
Per fortuna la notte era buia. La piú nera di tutte. La luna stava dietro le nubi ed era molto freddo. Il silenzio era pesante come la notte. Lontano, al di là delle nubi, dietro di noi, si vedevano i bagliori della battaglia e ne veniva un rumore come di ruote sull’acciottolato.
Stavo fuori della trincea con un mitragliatore imbracciato e scrutavo il buio verso le postazioni dei russi. Anche da loro era silenzio: pareva non esistessero piú. «Se attaccassero adesso?» pensavo. E fremevo.
Un alpino che avevo messo allíimbocco del camminamento che portava alla valletta venne a dirmi: – é passata la squadra di Moreschi, tutto bene. – Vai ad avvisare il Baffo, – dissi. Scrutavo il buio stringendo il mitragliatore e tremavo. – Sergentmagiú, è passato il Baffo, tutto bene. – Vai ad avvisare la pesante. – È passata la pesante, tutto bene. – Parla piano, vai ad avvisare Minelli –.
Era silenzio. Sentii Minelli che partiva, i passi che si allontanavano nei camminamenti, qualche bestemmia sottovoce. – Sergentmagiú, è passato anche Minelli –.
Guardavo davanti il fiume nero. Non tremavo piú. –
Preparatevi anche voi –. Sentivo il rumore degli uomini di Pintossi che si preparavano: parole mormorate sottovoce in un soffio, rumore di zaini che venivano caricati in spalla. – Sergentmagiú, possiamo andare? –Vai, Pintossi, vai e non far baccano. – E tu non vieni? – Vai, Pintossi, io verrò –. Mi si avvicinò l’alpino dalla barba secca e rada. – Non vieni? – disse. – Vai –. Ero solo.
Dalla trincea sentivo i passi degli alpini che si allontanavano. Erano vuote le tane. Sulla paglia che una volta era il tetto di un’isba giacevano calze sporche, pacchetti vuoti di sigarette, cucchiai, lettere gualcite: sui pali di sostegno erano inchiodate cartoline con fiori, fidanzati, paesi di montagna e bambini. Ed erano vuote le tane, vuote, vuote di tutto e io ero come le tane. Ero solo sulla trincea e guardavo nella notte buia. Non pensavo a nulla. Stringevo forte il mitragliatore. Premetti il grilletto, sparai tutto un caricatore; ne sparai un altro e piangevo mentre sparavo. Saltai nella trincea, entrai nella tana di Pintossi a prendere lo zaino. Vi erano delle bombe a mano e le gettai nella stufa. Levai ad altre bombe le due sicurezze e le posai piano sul fondo della trincea.