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Mi incamminai verso la valletta. Incominciava a nevicare. Piangevo senza sapere che piangevo e nella notte nera sentivo solo i miei passi nel camminamento buio.

Nella mia tana, inchiodato ad un palo, rimaneva il presepio in rilievo che mi aveva mandato la ragazza per il giorno di Natale.

PARTE SECONDA

LA SACCA

Prima di arrivare al fosso anticarro raggiunsi la squadra di Pintossi. Camminavano curvi, silenziosi. Ogni tanto qualcuno imprecava ma era uno sfogo per la disperazione che gravava dentro. Dove si andrà ora? Si accorgeranno i russi che abbiamo abbandonato il caposaldo? E ci inseguiranno subito? Resteremo prigionieri?

Mi fermavo ad ascoltare e guardavo indietro. Era tutto nero, era tutto silenzio.

Al fosso anticarro alcuni alpini della centotredici armi d’accompagnamento mettevano le mine. – Presto, – ci dissero, – siete gli ultimi. Dobbiamo distruggere la passerella.

Quando passai la passerella e fui di là mi pareva di essere in un altro mondo. Capivo che non sarei piú ritornato in quel villaggio sul Don; che stavo per staccarmi dalla Russia e dalla terra di «quel villaggio». Ora sarà ricostruito, i girasoli saranno ritornati a fiorire negli orti attorno alle isbe e il vecchio con la barba bianca come lo zio Jeroska, avrà ripreso a pescare nel suo fiume. Noi, scavando i camminamenti, trovavamo tra la neve e la terra patate e verze; ora avranno tutto livellato e vangando a primavera avranno trovato i bossoli vuoti delle armi italiane. I ragazzi giocheranno con quei bossoli, e io vorrei dir loro: «Vedete, anch’io fui qui, dormivo là sotto di giorno e di notte andavo per i vostri orti che non c’erano piú. Avete trovato l’àncora?»

Ad un certo punto dovevo incontrare la compagnia che mi aspettava; la trovai piú avanti; alle cucine. Quando il capitano sentí che arrivavo, venne verso di me imprecando e calpestando con ira la neve. Mi mise l’orologio sotto il naso dicendomi: – Guarda, cretino, abbiamo piú di un’ora di ritardo. Siamo gli ultimi. Non potevi sbrigati prima? – Tentai di dire qualcosa per spiegarmi, ma mi impose di tacere. – Vai col tuo plotone, – disse.

Ritrovai il mio plotone mitraglieri. Eravamo contenti di ritrovarci, ma non c’eravamo tutti. Il tenente Sarpi non era piú con noi; qualche altro, ferito, era all’ospedale. Antonelli mi si avvicinò: – é finita questa volta, – disse, – è finita –. Ci incamminammo per la strada che avevamo percorso quando ai primi di dicembre eravamo venuti a dare il cambio al Valcismon della Julia. Un pezzo da 75/13 sparò qualche colpo. Si andava con la testa bassa, uno dietro l’altro, muti come ombre. Era freddo, molto freddo, ma, sotto il peso dello zaino pieno di munizioni, si sudava. Ogni tanto qualcuno cadeva sulla neve e si rialzava a fatica. Si levò il vento. Dapprima quasi insensibile, poi forte sino a diventare tormenta. Veniva libero, immenso, dalla steppa senza limiti. Nel buio freddo trovava noi, povere piccole cose sperdute nella guerra, ci scuoteva, ci faceva barcollare. Bisognava tenere forte la coperta che ci riparava la testa e le spalle. Ma la neve entrava da sotto e pungeva il viso, il collo, i polsi come aghi di pino. Si camminava uno dietro l’altro con la testa bassa. Sotto la coperta e sotto il camice bianco si sudava ma bastava fermarsi un attimo per tremare dal freddo. Ed era molto freddo. Lo zaino pieno di munizioni a ogni passo aumentava di peso; pareva, da un momento all’altro, di dover schiantare come un abete giovane carico di neve. Ora mi butto sulla neve e non mi alzo piú, è finita. Ancora cento passi e poi butto via le munizioni. Ma non finisce mai questa notte e questa tormenta? Ma si camminava. Un passo dietro l’altro, un passo dietro l’altro, un passo dietro l’altro. Pareva di dover sprofondare con la faccia dentro la neve e soffocare con due coltelli piantati sotto le ascelle. Ma quando finisce? Alpi, Albania, Russia. Quanti chilometri? Quanta neve? Quanto sonno? Quanta sete? é stato sempre cosí?

Sarà sempre cosí? Chiudevo gli occhi ma camminavo. Un passo. Ancora un passo. Il capitano in testa alla compagnia perse il collegamento con gli altri reparti. Eravamo fuori dalla strada giusta. Ogni tanto accendeva la pila sotto la coperta e consultava la bussola. Qualche alpino si staccava lentamente dalla squadra, si sedeva sulla neve e alleggeriva lo zaino. Non potevo dire nulla, tranne che: – Nascondetele sotto la neve, tenetevi le bombe a mano –. Antonelli portava l’arma della pesante, non bestemmiava piú, non perché non volesse ma perché non poteva. Nel buio posai casualmente i piedi su cose oscure e solide: cassette portabombe per mortaio da 45. Erano della squadra di Moreschi, lo cercai e gli dissi: – Con la tua squadra devi aiutare le altre del plotone a portare le pesanti e le munizioni per le pesanti. Abbandona anche i mortai, – aggiunsi piú piano, – e le altre casse; cerca di fare in modo che non s’accorga il capitano –. In testa si fermarono, ci fermammo tutti.

Nessuno parlava, sembravamo una colonna di ombre.

Mi buttai sulla neve con la coperta sulla testa; aprii lo zaino e seppellii nella neve due pacchi di cartucce per mitragliatore. Si riprese a camminare, dopo un po’ mi feci dare da Antonelli la pesante e passai a lui le due canne di ricambio che avevo portato fino allora. Antonelli aprí la bocca, sospirò forte e bestemmiò tutto quello che poteva bestemmiare. Sembrava, tanto era divenuto leggero, che il vento lo dovesse portar via. E a me di sprofondare. – Sotto, – dissi, – dobbiamo restare uniti –.

Dove abbiamo camminato quella notte? Su una cometa o sull’oceano? Niente finiva piú.

Abbandonato sulla neve, a ridosso d’una scarpata al lato della pista, stava un portaordini del comando di compagnia. Si era lasciato andare sulla neve e ci guardava passare. Non ci disse nulla. Era desolato, e noi come lui. Molto tempo dopo, in Italia (e c’era il sole, il lago, alberi verdi, vino, ragazze che passeggiavano), venne il padre di questo alpino a chiedere notizie di suo figlio a noi pochi che eravamo rimasti. Nessuno sapeva dire niente o non voleva dire niente. Ci guardava duramente:

– Ditemi qualche cosa, anche se è morto, tutto quello che potete ricordarvi, qualsiasi cosa –. Parlava a scatti, gesticolando, e per essere il padre di un alpino era vestito bene. – È dura la verità, – dissi io allora, – ma giacchè lo volete vi dirò quello che so.

Mi ascoltò senza parlare, senza chiedermi nulla. – Ecco, – finii, – è cosí –. Mi prese sotto il braccio e mi portò in un’osteria. – Un litro e due bicchieri. Un altro litro.

Guardò il ritratto di Mussolini appeso alla parete e strinse i denti e i pugni. Non parlò e non pianse... Poi mi tese la mano e ritornò al suo paese.

Non finiva mai quella notte. Dovevamo arrivare in un paese delle retrovie dove c’erano magazzini e comandi.

Ma noi non sapevamo nessun nome di paese delle retrovie. I telefonisti, gli scritturali e gli altri imboscati sapevano tutti i nomi. Noi non sapevamo nemmeno il nome del paese dove era il nostro caposaldo; ed è per questo che qui trovate soltanto nomi di alpini e di cose. Sapevamo solo che il fiume davanti al nostro caposaldo era il Don e che per arrivare a casa c’erano tanti e tanti chilometri e potevano essere mille o diecimila. E, quando era sereno, dove l’est e dove l’ovest. Di piú niente.

Dovevamo arrivare in uno di questi paesi dove, ci dicevano gli ufficiali, avremmo potuto riposare e mangiare. Ma dove era? In un altro mondo? Finalmente lontano, si vide una luce tenue; s’ingrandiva sempre piú fino a diventare rossigna ed illuminare il cielo. Ma questa luce rossa era nel cielo o sulla terra? Poi avvicinandosi si poté distinguere che era un villaggio che bruciava. Ma la tormenta non smetteva e c’erano sempre i coltelli piantati sotto le ascelle e si era schiacciati dal peso dello zaino e delle armi. E altre luci rosse si videro in quel buio.