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La neve pungeva gli occhi ma si camminava. Arrivammo in un paese, intravvedemmo le isbe scure nella tormenta e sentimmo abbaiare i cani; si sentiva che sotto la neve c’era una strada. Ma non potevamo fermarci, bisognava camminare ancora. Altra gente camminava lí attorno.

Forse russi. Ma è meglio morire. Uno mi si avvicina, mi tira per la coperta, mi guarda fisso: – Che reparto siete?

– mi chiede. – 55 del Vestone, 6¡ Alpini, – rispondo –

Conosci il sergente maggiore Rigoni Mario? – dice l’ombra. – Sí, – rispondo. – È vivo? – chiede – Sí, – dico, – è vivo. Ma chi sei? – Sono un suo cugino, – dice. – Ma dov’è? – Sono io Rigoni, – dico, – ma tu chi sei? –

Adriano –. E mi prende per le spalle e mi chiama per nome e mi scuote. – Come va parente? – dice Adriano.

Ma io non riesco a dirgli niente. Adriano avvicina i suoi occhi al mio viso e ripete: – Come va parente? – Male, – dico, – va male. Ho sonno, ho fame, non ne posso piú.

Ho tutto quello che si può avere di peggio –. Adriano, me lo raccontò poi al paese, si stupí quella notte a sentirmi parlare cosí. – Io, – diceva al paese, – quando lo incontravo lo vedevo sempre sereno e allegro. Ma quella notte. Quella notte!

Adriano levò dallo zaino una scatola di marmellata e un pezzo di parmigiano di un paio di chili. – L’ho presa in un magazzino questa roba, – disse, – mangia –. Con la baionetta cercai di rompere il formaggio per staccarne un pezzo e restituirgli l’altro. Ma dopo essermi levato i guanti sentii un dolore impensabile straziarmi le mani e non fui capace di tagliarlo. Le mani non seguivano il cervello e le guardavo come cose non mie e mi venne da piangere per queste povere mani che non volevano piú essere mie. Mi misi a sbatterle forte una contro l’altra, sulle ginocchia, sulla neve; e non sentivo la carne e non le ossa; erano come pezzi di corteccia d’un albero, come suole di scarpe; finché me le sentii come se tanti aghi le perforassero, e me le sentii a poco a poco tornare mie queste mani che adesso scrivono. Quante cose può ricordarmi il mio corpo.

Riprendemmo a camminare nella notte. – E i paesani, Adriano? – chiesi. – Sono tutti sani, – rispose. – Ma io ora devo ritornare al mio reparto, ci rivedremo ancora. Stai in gamba parente. – Arrivederci, – dico, – in gamba sempre.

Sotto, sotto, dobbiamo restare uniti. Non ho il coraggio di parlare ai miei compagni di case di vino di primavera. A che gioverebbe? A buttarsi sulla neve e dormire e sognare queste cose e poi svanire nel nulla, nel niente, e sperdersi, sciogliersi con la neve a primavera nell’umore della terra. Era tutto buio ed in lontananza, nel cielo, riflessi rossi dei villaggi che bruciavano. Ancora un passo, ancora un altro; la neve passava la coperta e pungeva il viso, il collo, i polsi. Il vento ci toglieva il respiro e voleva strapparci la coperta. Mangiai un po’ del formaggio che mi aveva dato Adriano. Era duro a spezzarsi con i denti, a masticarlo era come sabbia, e sentivo che assieme al boccone mandavo giú sangue che mi usciva dalle gengive e dalle labbra. Il fiato mi si gelava sulla barba e sui baffi e con la neve portata dal vento vi formava dei ghiaccioli. Con la lingua mi tiravo quei ghiaccioli in bocca e succhiavo. E venne líalba. E la tormenta aumentò.

E il freddo aumentò. Ma ora mi domando: se non vi fosse stata la tormenta saremmo sfuggiti ai russi?

In quella notte il tenente Cenci era di retroguardia con il suo plotone. A un certo punto si erano fermati in un’isba isolata per riposare ma se due donne non li avessero svegliati in tempo per riprendere in fretta il cammino sarebbero stati sorpresi dai russi che già erano in vista dell’isba. E l’alba era grigia e il sole non veniva mai e c’era solo la neve e il vento e noi nella neve e nel vento.

Nessuno voleva piú portare le pesanti e le casse di munizioni; e quando uno si prendeva sopra lo zaino una di queste cose non c’era piú nessuno che voleva dargli il cambio. Cercavo di convincerli che bisognava tenerle con noi. Le Breda della mia squadra erano le armi migliori della compagnia e sapevo che cosa significasse per i fucilieri sentire le pesanti in caso di attacco. Bisognava portarcele con noi a costo di qualsiasi sacrificio. Ma quando, in quella mattina, dopo una tale notte, bisognava prendere sopra lo zaino il treppiede o una cassa di munizioni i coltelli sotto le ascelle pareva raggiungessero il cuore e i polmoni rimanevano senz’aria. Alleggerendo un compagno di una di queste cose, pareva che costui si alzasse in volo: sospirava, bestemmiava e poi diceva mentalmente un’avemaria.

Si camminava su una strada e la neve era ammucchiata ai lati; ma quella vecchia, non quella portata dalla tormenta. A destra c’era una rada fila di isbe. Si camminava a gruppetti e con lunghe code, era difficile tenere unito il plotone. Tra uno spazio e l’altro passava libero il vento e sibilava la tormenta. Eravamo tutti grigi e si vedeva poco.

Qui, una volta, vi dovevano essere magazzini o conducenti, perché tra la neve, si vedevano dei fili di paglia.

Pensate: paglia che una volta era un campo di grano. Vi erano anche delle casse di galletta. Come vedono le casse gli alpini vi si gettano sopra, sono vuote, ma pure qualche cosa ci deve essere nel fondo perché a spintoni e a pugni cercano di farsi largo e di affondarvi le mani.

Quelli che sono presi sotto gridano; poi lentamente si allontanano tutti. Uno rimane, gira ancora attorno alle casse, poi le rovescia e fruga nella neve.

Il capitano in testa a tutti si ferma e guarda la bussola.

Ma dove siamo? A un lato della strada vedo una massa oscura e immobile. Un camion? o una carretta? o un carro armato? é una macchina rotta e abbandonata.

Un senso di apprensione m’invade e mi pare che carri armati russi debbano uscire dalla tormenta. – Andiamo,

– dice il capitano, – state sotto, dobbiamo camminare in fretta. Avanti –. Finalmente arriviamo in un grosso paese dove erano comandi e magazzini. La tormenta è cessata, però tutto è grigio: la neve, le isbe, noi, i muli, il cielo, il fumo che esce dai camini, gli occhi dei muli e i nostri. Tutto di uno stesso colore. E gli occhi non vogliono piú stare aperti, la gola è piena di sassi che vi ballano dentro.

Siamo senza gambe, senza braccia, senza testa, siamo solo stanchezza e sonno, e gola piena di sassi.

Vediamo il maggiore comandante il battaglione uscire da un’isba. – Andate nelle isbe al caldo e riposatevi, – ci dice. – Sono già diverse ore che sono qui le altre compagnie. Dove siete andati? Chissà dove siete andati voi questa notte. Entrate nelle isbe, – dice il maggiore. Forse pensa di parlare con delle ombre perché stiamo lí come i muli che fumano dalla pelle. – Andate al caldo e riposate, – dice il capitano, – tra poche ore si riparte.

Sistemate i plotoni nelle isbe, – dice agli ufficiali e a me,

– e fate pulire le armi.

Quando siamo partiti dal caposaldo, eravamo con le squadre al completo; ora, guardando cosí, mi accorgo che mancano parecchi uomini: forse spersi nella tormenta, forse fermatisi in qualche isba, forse entrati nelle case appena arrivati qui. Ma nessuno s’interessa a controllare chi manca. Quelli che sono rimasti si allontanano a gruppetti in cerca di un’isba libera dove entrare. Io solo rimango fuori e giro da una strada all’altra senza sapere dove andare. Perché non sono andato con i miei compagni di plotone? anzi con i miei uomini? Non lo so perché. Rimango solo, fuori sulla neve; e non so dove andare. Infine vado a bussare a qualche porta. Ma, o mi rispondono male o non mi aprono. La maggior parte delle case è occupata da gente dell’autoreparto, della sussistenza, dei magazzini, della sanità. Voglio dormire un po’ al caldo, perché non mi lasciano entrare? Non sono anch’io un uomo come voi? E no, non sono come loro, io. Sono solo in mezzo alla strada e mi guardo attorno. Mi si avvicina un vecchio e mi indica, dietro una fila di isbe, in un orto, un cumulo di terra. Dalla terra sporge un comignolo, e dal comignolo esce del fumo.