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Mi fa cenno di andare là e scendere giú. E un rifugio antiaereo. All’altezza del terreno vi sono due piccole finestre con vetri, scendo per una scaletta, scavata nel terreno e busso alla porta. Provo a spingere ma è chiusa dall’interno. Qualcuno viene ad aprire, è un soldato italiano. – Siamo già in tre qui, – dice, – e una famiglia russa –. E richiude la porta. Batto: – Lasciatemi entrare, – dico, – mi fermerò poco, voglio solo dormire un po’, non mi fermerò tanto –. Ma la porta resta chiusa. Busso, la porta torna ad aprirsi, si affaccia una donna russa e mi fa cenno di entrare. È caldo qui dentro, è come nella mia tana al caposaldo, o nelle stalle, con la differenza che qui vi è questa donna russa con tre bambini e tre imboscati italiani. Ma ora ve n’è uno solo perché gli altri due sono fuori. Quello che è rimasto mi guarda male. La donna mi aiuta a levarmi il cappotto. Devo avere una faccia proprio conciata male se mi guarda con quegli occhi pieni di compassione che quasi piangono. Ma io non so piú commuovermi, ora. L’imboscato che da un angolo mi guarda, come vede che sulla manica ho due straccetti di gradi e sopra il taschino qualche nastrino, vuole attaccare discorso. Porca naia! E se fossi un conducente qualsiasi? un fuciliere? un mulo? una formica? Non rispondo alle sue domande e mi levo anche l’elmetto e il passamontagna. Mi pare di essere nudo. E svuoto le tasche dalle bombe e le metto nell’elmetto e mi levo le giberne che mi pesano sul ventre. Cavo da una tasca della giubba una manciata di caffè misto a neve e nel coperchio della gavetta lo pesto con il manico della baionetta.

La donna ride, l’imboscato sta zitto e mi guarda. La donna mette a bollire l’acqua e fa alzare i ragazzini che mi guardano sdraiati su dei cuscini. Prende i cuscini e li mette su una specie di palco, vi butta sopra anche una coperta; la mia la mette ad asciugare vicino al fuoco. Mi fa cenno di salire sul palco a dormire. Mi siedo con le gambe ciondoloni e finalmente dico: – Spaziba –. La donna mi sorride e anche i bambini. L’imboscato mi guarda sempre zitto. Levo dallo zaino la marmellata che mi aveva dato Adriano, non ho altro, e mangio. Voglio offrirne anche ai bambini ma la donna non vuole: – Cusciai, – mi dice, – cusciai, – mi dice sottovoce sorridendo. Quando l’acqua bolle mi fa il caffè e, finalmente, dopo tanti giorni, mando dentro qualche cosa di caldo. Mi aggiusto il posto per dormire, mi metto vicino il moschetto e l’elmetto con le bombe a mano. – Stamattina c’erano qui i carri armati russi, – mi dice l’imboscato. –

Ma tu cosa fai qui? – domando. – Che cosa aspetti? Non vai con il tuo reparto? – Non risponde. Fuori fa freddo, c’è la steppa, il vento, la neve, tanto vuoto attorno, i carri armati russi e lui sta qui al caldo con i suoi due compagni e la donna russa. – Se senti sparare, svegliami, – dico. Su di un’asse, contro la parete di terra gialla, c’è una vecchia sveglia e faccio cenno alla donna di svegliarmi quando la lancetta piccola sarà arrivata al numero due. A quell’ora devo trovarmi con la compagnia. Sono le undici, ora, dormirò tre ore. E mi butto giú sui cuscini, vestito e con le scarpe addosso. Ma perché non sono capace di dormire? Perché penso ai miei uomini che sono nelle isbe al caldo? Perché sto con le orecchie tese a sentire se sparano? Perché non viene il sonno? Da tanti giorni non dormo. Ritornano i due imboscati che erano fuori e sento che parlano fra di loro; sento un bambino che piange e sto con gli occhi aperti a guardare la parete di terra gialla. Il caposaldo, i chilometri, i miei compagni, i russi morti nel fiume, la Katiuscia, i miei paesani, il tenente Moscioni, le bombe a mano, la donna russa, i muli, i pidocchi, il moschetto. Ma esiste ancora l’erba verde? Esiste il verde? E poi dormo; dormo, dormo.

Senza sognare nulla. Come una pietra sotto l’acqua.

Quando la donna russa mi sveglia è tardi, mi ha lasciato dormire mezz’ora di piú. In fretta lego la coperta allo zaino, rimetto in tasca le bombe a mano e in testa l’elmetto. Quando sono pronto per uscire la donna mi porge una tazza di latte caldo. Latte come quello che si beve nelle malghe all’estate; o che si mangia con la polenta nelle sere di gennaio. Non gallette e scatolette, non brodo gelato, non pagnotte ghiacciate, non vino vetroso per il freddo. Latte. E questa non è piú naia in Russia, ma vacche odorose di latte, pascoli in fiore tra boschi d’abete, cucine calde nelle sere di gennaio quando le donne fanno la calza e i vecchi fumano la pipa e raccontano. La tazza di latte fuma nelle mie mani, il vapore sale per il naso e va nel sangue. Bevo. Restituisco la tazza vuota alla donna dicendo: – Spaziba.

Mi rivolgo, poi, ai tre imboscati: – Non venite? – Ma dove vuoi andare? – mi risponde uno: – Siamo circondati dai russi e qui siamo al caldo. – Lo vedo, – dico; – io vado. Vi saluto e auguri –. E ritorno fuori.

Il paese era tutto un brulicare, come quando nel bosco si introduce un bastone in un formicaio. Ragazzi, donne, bambini, vecchi entravano nelle isbe con fagotti e sacchi mezzi pieni e subito ritornavano fuori con i sacchi vuoti sotto il braccio. Andavano nei magazzini che bruciavano e prendevano tutto quello che riuscivano a salvare dalle fiamme. Slitte, muli, camion, automobili andavano e venivano senza scopo per le strade; un gruppo di carri armati tedeschi fece presto ad aprirsi un passaggio tra quel groviglio. Un fumo giallo e acre si fermava sopra il villaggio e fasciava le case. Il cielo era grigio, le isbe grige, la neve calpestata in tutti i sensi era grigia.

Avevo ancora in bocca il sapore del latte, ma ormai ero fuori. Ora camminavo verso casa. Sia quel che sia.

Le mani in tasca, guardavo quello che succedeva intorno a me; mi sentivo solo. Passando davanti a un edificio, forse le scuole, vidi pendere verso la strada due bandiere; una italiana e l’altra della Croce Rossa e quest’ultima era cosí grande che quasi toccava terra. Divenni improvvisamente triste. Immaginavo il paese vuoto con i magazzini che finivano di bruciare, gli abitanti chiusi nelle isbe, qualche mulo abbandonato che rosicchiava i torsi dei cavoli che spuntavano dalla neve. Immaginavo i soldati russi che arrivavano. I muli, allo sferragliare dei carri armati, muovevano appena le orecchie.

I nostri feriti guardavano dalle finestre dell’ospedale.

Tutto era grigio e le due bandiere pendevano verso la strada deserta.

Dall’ospedale ora stavano uscendo i feriti che potevano camminare e tentavano di aggrapparsi alle slitte e ai camion di passaggio.

Non riuscivo a vedere un soldato della mia compagnia o del battaglione. Forse erano già partiti tutti. Vidi uno del Cervino che camminava cosí come camminavo io. Lo chiamai e andammo assieme. Chiesi notizie di conoscenti. Il Cervino era il battaglione con il quale avevo partecipato a un’azione dell’inverno precedente. – E il sergente Chienale? – chiesi. – È morto. – E il tenente Sacchi? – Morto –. Tanti e tanti altri erano morti. Pochi, appena dieci, forse, erano rimasti di quel Cervino che era piú spavaldo di un battaglione di bersaglieri.

Attraversai il paese passando accanto ai magazzini che stavano bruciando. Piú tardi seppi che alpini arrivati qui dalla linea erano entrati nei magazzini abbandonati; e i soldati della sussistenza avevano detto: – Prendete quel che volete –. Trovarono cioccolata, cognac, vino, marmellata, formaggio. Sparavano nelle botti di cognac e mettevano sotto la gavetta. Dopo tanto tribolare, finalmente, bevevano e mangiavano e dormivano. Molti non si svegliarono piú: bruciati o assiderati. Altri svegliandosi si saranno trovati davanti al viso le canne dei mitra russi.

Ma qualcuno è riuscito a raggiungerci e a raccontare.