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Poco prima di uscire dal paese, tra tutta quella confusione, riuscii a vedere degli uomini della mia compagnia.

Li raggiunsi. Al passaggio d’una balca, prima di entrare nella steppa libera, v’era tutto un ammasso di camion, di slitte, di auto. Camion erano rovesciati nel fondo della balca e là chi bestemmiava, chi gridava, chi chiamava aiuto per spingere o cercare di liberare la pista. Provai piacere quando vidi i camion rovesciati che non si potevano muovere e ricordai come, nell’estate precedente, durante le interminabili marce notturne di avvicinamento, ci sorpassavano le lunghe autocolonne e la polvere color cioccolata delle piste si appiccicava al sudore di noi che si camminava sotto lo zaino, penetrava nella gola e ci faceva sputar giallo per delle settimane.

E quelli della sussistenza, dei magazzini e del genio di retrovia ai lati della pista ci guardavano passare e ridevano. Sí! porca naia, ridevano. «Ma questa volta si muoveranno anche loro. Diavolo se si muoveranno. Se vogliono arrivare a baita si muoveranno!» Questo pensavo mentre li guardavo affaccendarsi attorno alle loro macchine che portavano le scartoffie o i bagagli dei loro ufficiali o chissà che diavolo. Alle spalle si levavano le fiamme e il fumo degli incendi e si udiva sempre piú vicino il rumore delle cannonate. «Disincantatevi, imboscati, è giunta l’ora anche per voi di lasciare le ragazze delle isbe, le macchine da scrivere e tutti gli altri accidenti che il diavolo se li pigli. Imparerete a sparare con il fucile, venite con noi se volete; per noi, ne abbiamo abbastanza».

Pensavo a questo, e questo pensiero mi metteva energia e calpestavo con forza la neve fuori dalla pista. Camminavo piú spedito e andavo avanti. Risalimmo la balca.

Attraverso la steppa si snodava la colonna che poi spariva dietro una collina, lontano. Era una striscia come una S nera sulla neve bianca. Mi sembrava impossibile che ci fossero tanti uomini in Russia, una colonna cosí lunga.

Quanti caposaldi come il nostro eravamo? Una colonna lunga che per tanti giorni doveva restarmi negli occhi e sempre nella memoria.

Ma si avanzava lentamente, troppo lentamente, e cosí, con il gruppo che mi seguiva, ritornai fuori dalla pista per cercar di portarmi piú avanti. Avevamo due Breda con qualche migliaio di colpi e ancora i viveri di riserva.

Il peso ci faceva sprofondare nella neve ma pure si andava molto piú lesti della colonna. Gli spallacci dello zaino ci segavano le ascelle. Antonelli, come sempre, bestemmiava e Tourn ogni tanto mi guardava come a dirmi:

«La finirà, no?» C’era con noi qualcuno della squadra di Moreschi che cercava di rimanere qualche passo indietro per evitare il turno di portare l’arma. Antonelli inveiva contro costoro con le piú belle parole dei bassifondi veronesi. Si incontrava ogni tanto qualche uomo supino nella neve che, trasognato, ci guardava passare senza farci alcun cenno. Un ufficiale italiano con stivali e speroni, a un lato della pista, gesticolava e gridava insulsamente. Era ubriaco e ciondolava. Cadeva nella neve, si rialzava gridando chissà che cosa e poi ritornava giú.

Stava assieme a un carabiniere che cercava di sostenerlo e di tirarlo avanti. Infine si fermarono dietro a un pagliaio isolato nella steppa. Piú avanti incontrai altri soldati della mia compagnia, poi quattro uomini del mio plotone tra i quali Turrini e Bosio. Si erano arrangiata una piccola slitta e vi avevano caricato sopra la pesante e tre casse spalleggiabili di munizioni. Un po’ qua e un po’ là, lungo la colonna, ero riuscito a radunare quasi tutto il mio plotone. Ogni qualvolta un gruppetto si univa al mio già grosso era un piacere; ci si chiamava per nome e si rideva scherzando sulle nostre condizioni. Quelli che camminavano nella colonna alzavano gli occhi dalla neve, ci davano uno sguardo e ritornavano ad abbassare la testa. – Stiamo uniti, – dicevo, – e camminiamo in fretta.

Venne la notte e arrivammo in un piccolo paese nella steppa. Non so che giorno o che notte fosse, so che faceva molto freddo, e avevamo anche fame. Ci trovammo riuniti con gli altri plotoni della compagnia e con il battaglione. Ormai eravamo nel nostro ambiente: si sentiva parlar bresciano. Anche il maggiore Bracchi parlava bresciano: – Corai s’cet, forza s’cet –. Il maggiore Bracchi: cappello in testa, scarpe Vibram, sigaretta in bocca, gradi di banda sulle maniche del pastrano, il passo sicuro, occhi azzurri e voce che infondevano serenità. – Coraggio, ragazzi, diceva in bresciano, – per Pasqua saremo a casa a mangiare il capretto –. Chiamava per nome or l’uno or l’altro di noi e sorrideva.

– Barba di Becco, – disse (cosí mi chiamava lui, Barba di Becco o Vecio), – mi sembri diventato un po’ magro e trasandato. Una pastasciutta ci vorrebbe o un liter de negher. – Naia potente se ci vorrebbe! – dissi, – anche due. E lei non ci starebbe? – Sciur magiur, – gli disse Bodei, – deve restare consegnato, le manca un bottone sul pastrano e ha la penna storta. – Enculet ciavad, – gli rispose il maggiore. Il maggiore sorrideva e scherzava quando parlava con noi, ma poi diventava serio e gli occhi si spegnevano. E io pensavo: «Pasqua è ancora lontana, abbiamo appena passato Natale; e tanti chilometri ci sono da camminare».

Era notte e molto freddo, e si era con le scarpe nella neve in attesa di ordini. Vedevo che il capitano era stanco da non poterne piú. Il tenente Cenci, avvolto in una coperta come in uno scialle, fumava una sigaretta dietro l’altra e ogni tanto bestemmiava. Quando succhiava il fumo vedevo la braccia accendersi come un occhio di gatto. Parlava un poco con un alpino del suo plotone e bestemmiava in modo gentile con voce armoniosa e da salotto. Mi si avvicinò: – Come va, Vecio? – disse. – Va bene, – risposi, – va bene; ma fa un po’ freddo –. Naia potente se faceva freddo!

Attorno a noi c’era una gran confusione; si sentiva parlare tedesco, ungherese, e italiano in tutti i dialetti.

Poco lontano bruciavano delle isbe e dei magazzini e la neve attorno riverberava la luce rossastra sino ai limiti del villaggio, dove poi incominciava la steppa. E laggiú bruciava anche il paese che avevamo lasciato nel pomeriggio. Ogni tanto si sentivano scoppi e rumore di motori ma pareva che di là dal chiarore rossastro degli incendi non vi fosse piú nulla. Il mondo finiva là. Diavolo! e noi dovevamo andare piú avanti di quel buio. Ma le scarpe erano come legno, la neve secca come sabbia e le stelle pareva che strappassero la pelle come speroni. Nel paese non era rimasto nessuno; non c’erano nemmeno vacche, pecore, oche. Lontano, nel buio, si sentivano abbaiare i cani. I nostri muli erano con noi; e con le orecchie abbassate sognavano le mulattiere delle Alpi e l’erba tenera. Mandavano vapore dalle narici come le balene; avevano il pelo coperto di brina e mai erano stati cosí lustri. E i pidocchi anche c’erano; i nostri pidocchi che se ne fregavano di tutto e stavano al caldo nei posti piú reconditi. Ecco, pensavo, se dovessi morire i pidocchi che ho addosso che fine farebbero? Creperanno piú tardi di me quando il sangue nelle vene sarà come vetro rosso oppure resisteranno sino a primavera?

Quando, al caposaldo, mettevamo fuori le maglie con quaranta gradi di freddo per due giorni e due notti e le indossavamo dopo averle asciugate vicino alla stufa subito i pidocchi si facevano vivi. Erano robusti e forti.

– Rigoni, vuoi una sigaretta? – dice Cenci. Fumo, almeno il fumo è caldo. Antonelli impreca: – Ci muoviamo o no? Che facciamo qui? – E bestemmia.

Ascoltando quelli che erano qui prima di noi veniamo a sapere che i carri armati russi, arrivati fin qui, hanno portato il terrore. Ma ora siamo in tanti: una divisione ungherese, un corpo corazzato tedesco, la divisione Vicenza, quello che è rimasto della Julia, la Cuneense e noi della Tridentina. E poi tutti i servizi: autoreparti, sussistenza, genio, sanità, ecc. Buona parte di questi ultimi hanno già abbandonato le armi nella neve e sono convinti di essere già prigionieri. Prigionieri si è, penso e dico, quando un soldato russo ti fa camminare dove vuole puntandoti un fucile, ma non come ora.