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– Sergentmagiú, ghe rivarem a baita? – È Giuanin che si è avvicinato. – Ghe rivarem sí, Giuanin, – gli dico, – ma non pensarci ora alla baita, salta tra la neve per non gelarti i piedi –. Finalmente il maggiore Bracchi che si era allontanato in cerca di ordini, ritorna. Ci muoviamo finalmente, ma torniamo indietro. – Andiamo di retroguardia, – dice il tenente Pendoli. – Sempre a noi tocca,

– brontoliamo. (E quelli del Tirano diranno altrettanto).

– Vestú! Avanti da questa parte, – grida Bracchi.

Si cammina nella neve alta; ogni tanto si batte la testa sull’elmetto del compagno che sta avanti e ogni tanto bisogna correre per star sotto. I magazzini e le isbe bruciano e qua e là si sente gridare in tedesco. Passiamo vicino a dei grossi panzer col motore acceso (per non gelare, penso). Camminando cosí nella neve do dentro col piede in un barattolo e lo raccolgo. È mezzo pieno e al chiarore di un incendio vedo che contiene roba da mangiare. Introduco la mano senza levarmi il guanto: questa è la manna di Mosè: marmellata e burro mescolati assieme. Mi lecco il guanto e i baffi; mangio camminando e mangiano quelli che mi sono vicino.

Non so quanto abbiamo camminato; ogni passo pareva un chilometro e ogni attimo un’ora; non si arrivava mai e non finiva mai. Finalmente ci fermiamo a delle isbe isolate. Sistemo il mio plotone in un edificio in muratura: saranno state le scuole o la casa dello starosta. Vi troviamo anche dei soldati dell’autocentro. Questi sono come i pidocchi: s’annidano dappertutto. E c’è un fuoco, e c’è caldo e persino paglia sul pavimento. Ah! com’è bello buttarsi giú e cavarsi l’elmetto e mettere lo zaino sotto la testa stretti al caldo uno vicino all’altro.

Finalmente possiamo chiudere gli occhi e dormire.

Ma chi è che mi chiama lí fuori? Andate al diavolo, lasciatemi dormire. Uno apre la porta e fa il mio nome: –

Va’ dal capitano, ti vuole –. Ho dentro un fuoco che mi brucia. Mi alzo, i miei compagni sono già addormentati e russano. Per uscire devo pestare i loro piedi: bestemmiano, aprono gli occhi, si girano dall’altra parte e ritornano a dormire. Fuori è freddo; è tutto silenzio, il portaordini non c’è piú, tante stelle ci sono invece come in un cielo di settembre. Ma erano belle allora le notti di settembre nei campi di grano e papaveri; tiepide e amorose come la terra queste stelle. Ora non so se è un incubo o se uno spirito maligno si diverte alle mie spalle. Non c’è nessuno fuori e vado a cercare il capitano che mi vuole. Che avrà da dirmi? Cerco in uníisba e non lo trovo, busso alle altre. Mi rispondono in tedesco: – Raus! – o in bresciano: – Inculet!

– Trovo i fucilieri della mia compagnia e mi chiedono se voglio entrare a dormire da loro. – Cerco il capitano, – dico. – È qui? – No, – mi rispondono. Giro tra i cavalli degli ungheresi e cerco i1 capitano; lo chiamo per le piste che portano nella steppa. Nessuno mi risponde. Le stelle mi straziano la carne, mi viene da piangere e da maledire.

Vorrei istintivamente uccidere qualcuno. Pesto con ira la neve; agito le braccia; faccio crocchiare i denti; i sassi mi ballano nella gola. Calmati! Non impazzire! Calma! Ritorna nell’isba del tuo plotone, ritorna a dormire. Chissà cosa ti attenderà domani. Domani! Ma è già líalba, laggiú incomincia il crepuscolo. Le mattine al caposaldo quando rientravo nella tana calda ed era pronto il caffè; le mattine prima di venir soldato quando andavo per legna e sentivo il canto degli urogalli, le mattine che salivo alle malghe con il mulo grigio. E lei starà dormendo tra lenzuola di bucato, nella sua città di mare, e dal mare entrerà nella stanza il primo chiarore dell’alba. Ma sarebbe meglio buttarsi su quel mucchio di neve e dormire, chissà come sarà morbida. All’erta, sta’ all’erta, cerca l’isba del tuo plotone. Stringo i denti e i pugni e do calci nella neve. Ritrovo l’isba, entro e mi lascio cadere fra i corpi caldi dei miei compagni.

Ma non dormo forse nemmeno un’ora perché Cenci batte alla porta e dice forte: – Plotone mitraglieri sveglia! Fate presto, si parte. Rigoni sveglia! – E sento i miei compagni che si alzano in silenzio e arrotolano le coperte e poi le bestemmie di Antonelli. Come desidererei dormire, dormire ancora un poco, un poco solo; non ne posso piú; o impazzisco o mi sparo. Ma pure mi alzo, esco, raduno il plotone, controllo per vedere chi manca; vado in cerca dei ritardatari e facendo questo ritorno quello di sempre. Non penso piú né al sonno né al freddo. Mi assicuro se non abbiamo lasciato nulla nell’isba, munizioni o armi. Controllo i presenti, guardo se le armi sono pulite, tiro il carrello di armamento e premo il bottone a vuoto. Questo mio fisico è davvero meraviglioso: muscoli, nervi, ossa; non credevo prima d’ora che potesse sopportare tanto. Ci avviamo verso l’altra estremità del villaggio. Gli altri plotoni della compagnia sono già partiti e noi siamo gli ultimi. Sorpassiamo le slitte degli ungheresi e un gruppo di artiglieria alpina. Nel fondo di una balca non tanto profonda ci riuniamo alla compagnia. Ma il capitano manca. Il maggiore Bracchi, impaziente, cammina avanti e indietro sulla neve.

Mi chiama e mi manda a cercare il capitano e una compagnia che manca. – Fai presto, – mi dice Bracchi, – dobbiamo andare all’assalto e cercare di aprire la sacca –. Torno a rifare la strada. E lo trovo il capitano. Sta su una slitta; mi chiama mentre sono ancora lontano. – Rigoni, paesano, – dice, – ho la febbre. Volevo fermarmi in un’isba; no, non sto bene. Dov’è la compagnia? – Capitano, – dico, – la compagnia è laggiú, – e indico con la mano. – Vi aspetta, mi ha mandato in cerca di voi il maggiore.

Sono con il capitano, l’attendente e il conducente della slitta. Il suo aspetto non è piú quello di una volta, gioviale e furbesco; ma con la coperta tirata sulla testa come uno scialle e il passamontagna infilato sino al collo, non sembra piú il contrabbandiere di Valstagna.

– Portatemi dov’è la compagnia, – dice il capitano, – non lasciatemi solo. Sono il vostro capitano, no? Non vorrete mica lasciarmi solo, sono il vostro capitano! Ho la febbre, – ripete. – Andiamo, – rispondo.

Trovo un tenente della compagnia che manca, con il suo plotone. – La compagnia sta venendo, – mi dice. Ma intanto abbiamo fatto tardi e al nostro posto sono andati il Verona e un battaglione del 5¡. Si sente già sparare.

Sparano forte. Si odono le raffiche secche dei mitra russi, le nostre pesanti, i colpi acuti dei fucili, qualche scoppio di mortaio e anche di bombe a mano. Dev’essere dura lassú. Sento brividi per la carne, mi pare sentire le pallottole cucire la mia anima, ogni tanto trattengo il respiro. Mi viene una grande malinconia e un gran desiderio di piangere. Lassú dove sparano: una fila di isbe sul dorso di una mugila. E bisogna passare, dicono, perché al di là c’è una strada da dove ci possono venire incontro le motorizzate tedesche.

Ma i russi non vogliono lasciarci passare. Sparano, sparano, sparano e io ho paura e se fossi con loro no. Mi pare che qualcosa si stacchi da me a ogni raffica, a ogni esplosione. Noi siamo qui pronti ad intervenire e vorrei finirla di stare ad aspettare in questa balca fredda a ridosso del villaggio e con questa angoscia. Passeranno o è davvero finita? I miei compagni sono stanchi, ogni tanto un uomo del mio plotone se ne va, gira per il villaggio tra le slitte degli ungheresi. Questi sono i piú passivi e i piú neutri di tutti. Hanno le slitte stracariche di lardo, salumi, zucchero, tavolette di vitamine, ma niente armi e munizioni. Gli alpini girano attorno alle slitte, sornioni, con le mani in tasca e l’aria da fessi. Quando ritornano tra noi tirano fuori pezzi di lardo e salami di sotto i pastrani. Abbiamo acceso un gran fuoco, ci stiamo attorno a cerchio e ogni tanto ci voltiamo per scaldarci da tutte e due le parti. Si chiacchiera e il vino è l’argomento principale. – Quando sarò a casa voglio fare un bagno in una botte di vino, – dice Antonelli. – E io mangiare tre gavette di pastasciutta, – aggiunge Bodei (si è dimenticato oramai che a casa si mangia nel piatto), – e fumare un sigaro lungo come un alpenstock –. Serio e convinto, guardando il fuoco, Meschini dice: – Fare una sbornia di grappa e liquefare con il fiato tutta la neve della Russia –.