Выбрать главу

Ma ogni tanto si sta zitti e lassú continuano a sparare. –

Sparano, – dice Antonelli, e bestemmia. – Tourn! – grida, battendogli una mano sulla spalla: – e bute e meze bute, Barbera e Grignolin! – E Tourn alza la testa, gli occhietti da scoiattolo sotto il passamontagna si accendono: – Basta ch’el sia da beive, – dice. Ma qui porca naia non c’è niente. Un fuoco che ti affumica davanti e neve che ti agghiaccia dietro. I tenenti Cenci e Pendoli chiamano adunata vicino alle slitte della compagnia: c’è qualcosa da distribuire. Sono gli ultimi viveri che ci vengono dati come razione e che i cucinieri sono riusciti a portare sin qua. Io ero convinto che non ci fosse piú nulla. I sacchi delle pagnotte sono incrostati di neve e odorano di cipolla, di carne, di conserva, di fumo di caffè; dell’odore dei cucinieri insomma. Ci sono due pagnotte per ciascuno, dure, gelate, e vecchie; e dalle slitte esce anche una forma di reggiano e anche quello è gelato. Per spaccarlo il tenente Cenci deve prendere un’accetta e poi l’aiuto io con la baionetta a fare le razioni per i plotoni. C’è anche cognac. Quando il cuciniere tira fuori i bidoni ne sentiamo l’odore e annusiamo l’aria come i cani da caccia e quelli che sono lontani si fanno sotto. Capisquadra fuori le gavette! Quante volte ho fatto le razioni in quattro anni di naia: una gavetta sino ai chiodi del manico otto razioni di vino, un gavettino di cognac una squadra. Ma di cognac ora ce n’è di piú e le parti le fa Cenci. Ritiro con i capisquadra la roba per il mio plotone. Attorno al fuoco beviamo il cognac; attorno al fuoco.

Antonelli bestemmia, Tourn si liscia i baffi, Meschini mugola. Cenci viene da noi. – In gamba, pesante, – dice e ci dà da fumare. Naia potente!

So che vicino a noi del Vestone ci dovrebbe essere il battaglione del genio alpino della nostra divisione ove ho i paesani e vado in cerca di loro. Trovo il Vecio e Renzo. Vengono dalla battaglia dove erano di collegamento presso il colonnello Signorini. Appena li vedo camminare stanchi sulla neve mi ritorna alla memoria che in settembre erano venuti a trovarmi in linea e tanto bene era nascosta la mia tana nel campo di grano che quasi ci cascavano dentro con la motocicletta che montavano. Strano il rumore della motocicletta nel campo di grano. Solo quello si sentiva e io, sdraiato nella tana, pensavo: «Chi sarà?» Ed erano loro, i miei paesani che mi portavano un sacchetto di frumento per fare il pane.

Quel giorno avevo un bidoncino di vino: un mese di razioni arretrate. Mi sembrava di vedere il mio paese nell’incontrarli. – Ciao Renzo, ciao Vecio. – Mario! –

Mario! – Vengono dal combattimento e sono stanchi. –

Questa volta non arriveremo a casa, Mario; ci lasceremo la pelle. I russi non ci lasciano passare, – dice il Vecio.

Ed è triste. Chissà quanti ne avrà visti morire; chissà cosa sarà passato per la sua radio. Renzo, invece, è sempre uguale. Se avesse un fiasco di vino o sentisse una quaglia cantare nell’avena, alla sacca non ci penserebbe piú. Ma forse non ci pensa nemmeno adesso. – Su, coraggio paesani, – dico, – vedrete che festa faremo quando saremo ritornati, che pastasciutte e che sbornie! Ci sarà anche lo Scelli con l’armonica e le ragazze e grappa –. Ma il Vecio sorride sfinito e gli occhi gli luccicano. Chiedo a loro di Rino. Non sanno dirmi dove sia e cosí vado a cercarlo.

Trovo il tenente medico del suo battaglione e mi dice d’averlo visto un attimo prima. Mi rallegro: almeno è vivo. Chiedo di lui ai suoi compagni: Era qui adesso, – mi dicono. Lo chiamo ma non riesco a trovarlo. Incontro Adriano e Zanardini: – Coraggio, – dico, – ce la faremo

–. Ritorno dov’è il mio plotone. Mi metto dietro un’isba e accendo il fuoco. Non so come, mi trovo assieme a Marco Dalle Nogare. Marco che non si risparmia mai con nessuno, amico di tutti. Con lui mi sento meglio anch’io. Nella tasca del pastrano, ho trovato un pacchetto di verdura essiccata; facciamo sciogliere la neve nella gavetta e la mettiamo a bollire. Mangiamo assieme. – Che naia, Marco! – Ma siamo abbastanza allegri noi due; e parliamo di quando in Albania abbiamo vuotato una bottiglia di doppio Kummel. Dopo mangiato Marco ritorna con i portaordini del comando di reggimento.

Come passano lente le ore; il freddo aumenta con l’avvicinarsi della sera. Lassú non si è deciso ancora niente e gli spari si fanno sempre piú radi, anche le raffiche sembrano stanche. Il cielo è tutto verdeceleste, immobile come il ghiaccio, gli alpini parlano poco e sottovoce fra di loro. Giuanin mi si avvicina, mi guarda da sotto la coperta che si è tirato sulla testa, non dice niente e torna via. Vorrei chiamarlo e gridargli: «Perché non mi chiedi se arriveremo a baita? Èfreddo e si fa sera, la neve e il cielo sono uguali. A quest’ora nel mio paese le vacche escono dalle stalle e vanno a bere nel buco fatto nel ghiaccio delle pozze. Dalle stalle escono il vapore e l’odore di letame e latte; i dorsi delle vacche fumano e i camini fumano. Il sole fa tutto rosso: la neve, le nubi, le montagne e i volti dei bambini che giocano con le slitte sui mucchi di neve: mi vedo anch’io tra quei bambini. Ele case sono calde e le vecchie vicino alle stufe aggiustano le calze dei ragazzi. Ma anche laggiú in quell’estremo lembo della steppa c’era un angolo di caldo. La neve era intatta, l’orizzonte viola, e gli alberi si alzavano verso il cielo: betulle bianche e tenere e sotto queste un gruppetto di isbe. Pareva che non ci fosse la guerra laggiú; erano fuori del tempo e fuori del mondo, tutto era come mille anni fa e come forse tra mille anni ancora. Lí aggiustavano gli aratri e le cinghie dei cavalli; i vecchi fumavano, le donne filavano la canapa. Non ci poteva essere la guerra sotto quel cielo viola e quelle betulle bianche, in quelle isbe lontane nella steppa. Pensavo:

«Voglio anch’io andare in quel caldo, e poi si scioglierà la neve, le betulle si faranno verdi e ascolterò la terra germogliare. Andrò nella steppa con le vacche, e alla sera, fumando macorka, ascolterò cantare le quaglie nel campo di grano. D’autunno taglierò a fette le mele e le pere per fare gli sciroppi e aggiusterò le cinghie dei cavalli e gli aratri e diventerò vecchio senza che mai ci sia stata la guerra. Dimenticherò tutto e crederò di essere sempre stato là». Guardavo in quel caldo e si faceva sempre piú sera.

Ma poi sentii un ufficiale che chiamava adunata e sorrisi. – Adunata Vestone. – Cinquantacinque adunata! –

Si radunarono le compagnie, i plotoni, le squadre. Si ritornava a fare la retroguardia. Era sera e non capivo dove si andava. Vedevo attorno a me gente che camminava e io andavo con loro. Dopo (quanto dopo?) ci fermammo vicino a delle costruzioni basse e lunghe, isolate nella steppa. Lí trovammo tre o quattro carri armati tedeschi e un gruppo di artiglieria alpina. Le costruzioni dovevano essere state o magazzini di qualche colcos o stalle. Dentro faceva freddo e c’era odore di muli, e per terra paglia mista a letame. Tra le fessure si vedevano le stelle. Non so dove andarono le altre compagnie; noi ci fermammo. Stabilii il turno di vedetta e misi fuori le sentinelle del mio plotone. In una buca accesi il fuoco con degli sterpi e nella neve liquefatta feci bollire una pagnotta gelata. In tasca avevo anche un cartoccio di sale.

Era tanto freddo, freddo; il fuoco faceva piú fumo che fiamma e gli occhi mi bruciavano per il fumo, il freddo, il sonno. Mi sentivo triste, infinitamente solo senza capire la causa della mia tristezza. Forse era il gran silenzio attorno, la neve, il cielo pieno di stelle che si perdeva con la neve. Ma pure, anche in simili condizioni, il corpo faceva il suo dovere: le gambe mi portavano in cerca di sterpi, le mani mettevano gli sterpi sul fuoco e frugavano nelle tasche per cercare il sale da mettere nella gavetta. Anche il cervello faceva il suo dovere perché, dopo, andai a fare un giro dalle vedette (– Come va, sergentmagiú? – Va bene, va bene; muoviti per non gelare) e andai a chiamare quelli che dovevano dare il cambio. Era come se io fossi due e non uno e uno di questi due stava a guardare cosa faceva l’altro e gli diceva cosa dovesse fare e non fare. Lo strano era che uno esisteva come esisteva l’altro, proprio fisicamente, come uno che l’altro potesse toccare.