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Andai a dormire in un capannone. Ma i posti migliori erano occupati e cosí mi allungai dietro i muli, in prossimità delle loro parti posteriori. Era tutto zeppo di artiglieri e di alpini e bisognava camminare sopra le loro membra. Cercavo di fare piano, di camminare leggero ma pure qualche volta mi capitava di mettere i piedi su un arto assiderato e allora erano urli e bestemmie. Ogni tanto dovevo uscire per dare il cambio e accertarmi delle vedette. Ero appena rientrato da uno di questi controlli, quando un artigliere, camminando nel buio, mi mise gli scarponi sul viso lasciandomi i segni dei chiodi sulla pelle. Cosí gridai anch’io con tutta la mia voce.

Prima dell’alba vi fu adunata ancora una volta; ordine di abbandonare tutto tranne le armi e le munizioni. I miei compagni mi guardano e mostrandomi un fascio di lettere mi chiedono: – Questo lo possiamo tenere? – Sono tristi e pensierosi; nessuno butta via le munizioni. –

Forse si va, finalmente, – dico loro, – dovremo camminare molto e bisognerà essere leggeri –. Gli ufficiali dicono: – Fate presto, si parte.

Camminiamo spediti. Le stelle fanno presto a sparire e il cielo ritorna come ieri. Una compagnia del nostro battaglione manca all’adunata e non si sa dove sia. Piú tardi venni a sapere che questa compagnia restò tutta prigioniera. Era sola di retroguardia e quella mattina s’era attardata sulle posizioni. Dalla steppa avanzavano colonne di uomini in cachi e gli ufficiali dicevano: – Sono gli ungheresi che vengono a darci il cambio –. Ma quando li ebbero addosso si accorsero che erano russi.

Cosí ci rimasero. Si salvò un ufficiale, qualche alpino, e il capitano che ci raggiunse piú tardi. Era ubriaco di cognac e gridava: – La mia compagnia è tutta prigioniera, siamo tutti circondati, è inutile combattere –. Ma era ubriaco e nessuno gli badava.

Ora tocca a noi andare su a tentare di rompere l’accerchiamento. Dicono che stanotte gli ufficiali superiori della nostra divisione abbiano tenuto consiglio decidendo di tentare la sorte sino all’ultima speranza.

Diventiamo tutti fiduciosi, allegri quasi, siamo convinti che questa volta ce la faremo. Con Antonelli e Tourn canto: «Maria Giuana l’era su l’us...» Qualcuno, passando, ci guarda con compassione: ci credono pazzi. Ma noi cantiamo piú allegramente. Il tenente Cenci ride.

– Avanti il Vestone, – si sente gridare. Ecco, ora toccherà a noi. Passiamo in testa a tutti. Gli artiglieri aprono le loro giberne e ci dànno i loro caricatori e le loro bombe a mano. Ci guardano come noi guardavamo quelli che andavano su ieri e cercano di farci coraggio.

Rido con Antonelli e diciamo: – Sparate giusto con il 75/13, a fil di penna. – State tranquilli paesani, – ci dicono, – state tranquilli.

Ecco, ora si dovrebbe essere sotto il tiro. Ma perché non sparano i russi? Di tratto in tratto si vede sulla neve un alpino disteso: sono i nostri compagni del Verona rimasti ieri con le scarpe al sole. Alle prime case sentiamo qualche raffica di arma automatica, poi piú nulla. Giriamo a destra e ci addentriamo in un bosco di querce. Si sprofonda nella neve con tutta la gamba; nel bosco accendiamo un fuoco con delle cassette vuote di munizioni.

Hanno detto di aspettare qui. Ora i russi si sono attestati a quell’altro villaggio laggiú che è come un’appendice di questo primo; e di là bisogna passare perché, ci ripetono, dopo c’è una bella strada da dove ci verranno incontro le motorizzate tedesche. Qui a comandare il mio plotone viene un tenente di Genova. Ma comandare non sa, almeno in queste situazioni, e mette lo scompiglio tra i miei uomini. Tiene sempre una mano sulla fondina della pistola e con l’altra gesticola; grida: – Dovete venire con me, io vi porterò in Italia, a chi si allontana sparo –. E intanto non si assicura che le armi funzionino e quante munizioni abbiamo. Noi non diamo importanza né ai suoi gesti né alle sue parole e io vado a far due chiacchiere con i fucilieri. Attorno al fuoco stanno pulendo i mitragliatori. Faccio portar là le due Breda che sono in grado di funzionare.

– Avanti il Vestone, – si sente ancora. In testa alla compagnia vediamo il capitano; non so dov’è stato finora, lo ritroviamo davanti a noi come una volta. Intanto, da dove siamo partiti stamattina, è salita una lunga colonna di gente. All’orlo del bosco sono appostate delle piccole Katiusce tedesche; guardo con curiosità quelle strane armi e penso con raccapriccio al rumore che faranno sparando.

Gli ufficiali stanno studiando la manovra. Noi della cinquantacinque dovremo fare un lungo giro e prendere il villaggio quasi alle spalle. Il Valchiese e i battaglioni del 5¡ manovreranno con noi; all’ultimo momento entreranno in azione le Katiusce e i carri armati dei tedeschi. Le autocarrette e i camion vengono abbandonati sulla pista che sale quassú. Passando vicino vediamo gli autisti che rendono inservibili i motori e levano la benzina per darla ai carri armati. Sulla neve sono sparsi pacchi di marchi nuovi e dalle casse sfondate escono circolari, ruolini, registri, ecc., e sono contento di vedere la fine di queste cose.

Da una autocarretta vedo scendere il tenente Moscioni. Cammina zoppicando sulla neve, è pallido, stringe i denti e viene avanti rigido e lungo. Lo chiamo e vado verso di lui. Mi chiede subito del suo plotone e della compagnia: – Ecco lí il suo plotone, signor tenente, andiamo –. Tante cose avrei da chiedergli e lui a me. Ma ci guardiamo felici di esserci ritrovati.

Camminiamo nella neve alta, si avanza a fatica. Portando le armi si sprofonda ed è una pena tirar su la gamba dalla neve e mandarla avanti per fare il passo. Siamo tutti stanchi e mi diventa sempre piú difficile far dare il cambio ai portatori. Il tenente X... vuole imporsi, ha sempre la pistola in mano, ma mi accorgo che non l’ascoltano e non hanno fiducia in lui: grida troppo.

Anch’io porto il treppiede per il mio tratto. C’è tanto sole, ora, e si suda. Siamo allo scoperto, e cosí sulla neve si è proprio un bel bersaglio. Cammino con l’animo sospeso pensando: «Se sparassero con i mortai? Per le loro armi automatiche siamo ancora troppo lontani». Mi accorgo che non tutti gli uomini del plotone mi seguono, anche i miei amici se ne accorgono e mi chiedono: –

Perché non vengono con noi? – Stiamo uniti, animo, ce la faremo, – dico, – siamo del peso noi –. Antonelli inveisce sempre piú, sprofondando sotto il peso dell’arma.

È in gamba veramente; bestemmia e impreca ma va sempre avanti e l’arma della sua squadra se la porta quasi sempre lui. Il tenente, che non vuole sentire bestemmiare, rimprovera Antonelli. Antonelli bestemmia piú forte e lo manda al diavolo. Come ho vivo questo ricordo!

Gli altri plotoni continuano a camminare in ordine sparso alla nostra destra; noi dobbiamo proteggere la sinistra della compagnia, i russi potrebbero capitare da qui. Il capitano è in testa a tutti e ci grida di camminare piú in fretta. Sento le voci di Pendoli, di Cenci, di Moscioni che incitano i loro plotoni. D’un tratto, sotto la crosta di terra che mi copre il viso, sento d’impallidire; ho sentito alcuni colpi di partenza. Ecco il sibilo: mortai. Le bombe passano sopra di noi e vanno a scoppiare cinquanta metri piú giú dove non c’è nessuno. – Avanti, presto, avanti, – dico. Ma come si fa? – Avanti, laggiú c’è una balca dove ci si può defilare. Avanti presto –.

Tutti vogliono stringersi intorno a me. – Sparpagliatevi,

– grido. – A sinistra –. Ecco un rombo lungo, ossessionante; lo conosco bene ma non sembra cosí furioso come allora. Alzo la testa e come vedo che le scie delle bombe a razzo vanno in direzione dei russi mi rallegro.