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– Sono per loro! – grido, – sono i tedeschi che sparano

–. Dove cadono i colpi vediamo delle isbe che si incendiano e subito i mortai russi cessano di sparare su noi.

Alle prime case del villaggio si ode una nutrita sparatoria; lí c’è il Valchiese, noi siamo piú avanti di loro e dobbiamo fare un lungo giro. Il tenente, intanto, continua a gridare impugnando la pistola. Vede russi dappertutto, scambia per russi anche i plotoni della nostra compagnia e vuole piazzare le armi ogni cento metri puntandole in direzioni fantastiche. Era pazzo, credo, o sulla via di diventarlo.

Nel frattempo, a causa della confusione creata dal tenente, e del tempo che si perdeva a cambiare i portatori, i rimanenti plotoni della nostra compagnia ci avevano distaccati di un bel po’. Il capitano ci urlava da lontano:

– Fate presto –. E se la prendeva con me. Ed era giusto che bisognava fare presto, perché in caso di attacco noi si restava tagliati fuori né potevamo appoggiare i fucilieri con le pesanti. Accelero. Sudiamo e imprechiamo ma giungiamo in una balca ove si può tirare il fiato. Risaliamo; ora siamo vicini al paese e si sta per completare la manovra. Vedo una massa scura sulla neve e mi avvicino. è un alpino dell’Edolo, ha la nappina verde. Sembra placidamente addormentato, all’ultimo momento avrà visto i pascoli verdi della Val Camonica e sentiti i campanacci delle vacche.

Nel paese, tra isba e isba, passano delle slitte veloci e sento esplosioni di bombe a mano. – Guardate, – grido,

– scappano –. Ancora un poco, avanti. Il giro è compiuto, siamo arrivati alle ultime isbe del paese. Bisogna stare attenti perché sparano anche da pochi metri. Ma invece no; per non restare accerchiati, allíultimo momento se ne sono andati e hanno fatto pochissima resistenza. Sopra il paese grava una nube di fumo nero e puzzolente, delle isbe bruciano, vicino a queste vi sono dei cadaveri: donne, bambini, uomini. Si sentono lamenti e pianti. Un senso di raccapriccio mi invade e cerco di guardare altrove. Ma lí è come una calamita e il mio sguardo vi ritorna.

Ci fermiamo a bere vicino ad un pozzo e caliamo giú le gavette con il lungo palo a bilanciere. Qui sostiamo un poí.

Il colonnello Signorini ci passa accanto, sul volto onesto ha un sorriso di soddisfazione; la manovra è riuscita come in piazza d’armi e ci dice: – Bravi ragazzi –. Simultaneamente tutti sono presi da un sollievo, da un’allegria grande. È finita ora! Ancora pochi chilometri e saremo fuori dalla sacca. Davanti a noi si apre una strada larga e battuta. Il tenente del mio plotone dice: – Avete visto cosa ci voleva? Siamo in Italia ormai. Ve l’avevo detto di venire con me.

Ci raggiungono anche gli uomini del mio plotone che si erano allontanati al principio dell’azione. Li rimprovero; Antonelli non li guarda nemmeno. A ogni modo li carico ora delle armi. Il maggiore Bracchi è giulivo e fiero, si dà attorno per riorganizzare le compagnie del suo Vestone: – Sotto s’cet, forza s’cet! A Pasqua saremo a casa per mangiare il capretto.

Intanto la testa della colonna ci raggiunge, la fine si perde nella steppa. Veniamo a sapere che dove eravamo stamattina sono arrivati i carri russi. – Hanno fatto strage, – ci dicono. La divisione ungherese è rimasta quasi tutta prigioniera assieme a quelli che non avevano abbastanza coraggio o forza per venire con noi. Ma ora tutti corrono avanti creando confusione. In testa, però, ci vuole della gente armata e si sente gridare: – Avanti la Tridentina –. Bracchi grida: – Vestú! Avanti.

Il sole è basso, le nostre ombre si allungano sulla neve. Attorno vi è una distesa immensa, senza case, senza alberi, senza il segno di un uomo, solo noi e la colonna dietro di noi che si sperde in lontananza dove il cielo si unisce alla steppa.

Camminiamo. Guardando in giro mi accorgo che sulla nostra via, un poco fuori mano, vi sono dei cavalli sbandati. Riesco a prenderli. Sul piú forte proviamo a caricare le due Breda e le munizioni. Ma il capitano non vuole. Dice che le armi bisogna averle sempre pronte. E cosí ci tiriamo dietro i cavalli e le armi in spalla. Dopo un po’ un cavallo se lo prende il capitano e vi monta sopra. È molto stanco e ha la febbre. Un cavallo se lo prende Cenci per il suo plotone. Su quello che mi resta carico gli zaini dei portatori.

Ora non c’è piú il sole e si cammina ancora. Muti, con le teste basse, camminiamo barcolloni, cercando di mettere i piedi sulle peste del compagno che sta davanti.

Perché camminiamo cosí? Per cadere sulla neve un po’ piú avanti e non alzarci piú.

Alt. Il compagno davanti si è fermato e tutti ci fermiamo. Ci buttiamo sulla neve. Ufficiali superiori italiani e tedeschi su un automezzo cingolato, vicino a noi, consultano carte e bussole. Le ore passano, viene la notte e non ci si muove ancora. Forse aspettano una comunicazione radio. Stando fermi si sente il freddo piú che sempre, e tutto attorno è buio: la steppa e il cielo. Erbe secche e dure escono dalla neve. Fanno nel vento uno strano rumore ch’è il solo che si senta. Nessuno di noi parla. Sediamo sulla neve con la coperta sulle spalle uno vicino all’altro. Siamo ghiaccio dentro e fuori, eppure siamo ancora vivi. Levo dallo zaino la scatoletta di carne di riserva. L’apro, ma mi sembra di masticare ghiaccio, non ha nessun gusto e non vuole andarmi giú; riesco a mangiarne metà e il resto lo ripongo nello zaino. Mi alzo, batto i piedi, mi avvicino al tenente Moscioni. Viene anche Cenci e assieme fumiamo una sigaretta. Non ci diciamo che poche parole, sembra che ci si siano gelate anche le corde vocali. Ma restare in piedi cosí, fumando, ci dà un po’ di conforto. Non pensiamo a nulla, fumiamo e tutto è silenzio. Non si sente nemmeno Antonelli bestemmiare.

– In piedi! In piedi! – si sente infine gridare da qualcuno. Si riparte. È difficile, molto difficile muovere i primi passi; le gambe dolgono, le spalle dolgono, le membra intorpidite dal freddo sembrano non obbedire.

Qualcuno torna a cadere nella neve appena s’è alzato.

Ma un po’ alla volta, piano, piano, le gambe tornano a portare avanti il corpo.

Di nuovo, dunque, si camminava; squadra per squadra, plotone per plotone. Il sonno, la fame, il freddo, la stanchezza, il peso delle armi erano niente e tutto. L’importante era solo camminare. Ed era sempre notte, era neve e solo neve, erano stelle e solo stelle. Guardando le stelle mi accorsi che si cambiava direzione. Ma dove andiamo ora? E sentii che si ritornava a sprofondar nella neve. Dalla sommità di una mugila vediamo in lontananza dei lumi; si vedono anche delle case: un villaggio! Antonelli ritorna a bestemmiare e il tenente a rimproverarlo e lui a rimandarlo nei bassifondi di Verona. E Bodei mi chiede: – Sergentmagiú, ci fermeremo là? – Sí, ci fermeremo, – rispondo forte. Ma che ne posso io sapere, penso, se lí ci fermeremo; o se ci passeremo o se ci sono i russi? – Ci fermeremo, – dico forte per loro e per me. Il maggiore Bracchi passa vicino a noi: – Rigoni, – mi dice, ma in maniera da farsi sentire da tutti. – Là troveremo un’isba calda, Rigoni.

Nel paese però potrebbero esserci i russi e cosí ci prepariamo per l’attacco. La mia compagnia è di punta e il capitano dà le disposizioni. A plotoni aperti scendiamo lentamente la mugila, ogni tanto mi guardo attorno per vedere se gli uomini mi seguono. Tre panzer tedeschi vengono con noi. Accovacciati sopra vi sono i soldati tedeschi vestiti di bianco. Immobili impugnano le pistole mitragliatrici, fumano in silenzio e ci guardano. La colonna si è fermata in alto a vedere che cosa succede.

Improvvisamente, dalla nostra destra, entra velocissima un’autoblinda nera. Passa davanti a noi come un fantasma, sfiora un panzer tedesco e allora gli uomini del panzer si accorgono che è russa. Ma come è apparsa, cosí scompare, e nel cielo si vedono i segni luminosi delle pallottole traccianti che la inseguono invano. Tutto è successo in un tempo cosí breve da rimanere stupiti e increduli. Ma riprendiamo a camminare in direzione del paese. Al suo ingresso vi sono due pagliai che bruciano e due camion che pure bruciano. Questi sono carichi di munizioni che scoppiano e mandano attorno fiamme, scintille e schegge come un fuoco d’artificio. Passando vicino sentiamo il calore e ci si vorrebbe fermare lí a godere quel caldo di paglia, di camion e di munizioni che bruciano nella notte.