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Attraversiamo un fiume gelato profondamente incassato tra due rive ripide. Dall’altra parte ci fermiamo ad aspettare i panzer tedeschi. Da un buco fatto nel ghiaccio, forse dalle donne per prender acqua o dai vecchi per pescare, tiriamo su, con le gavette, acqua per bere.

Beviamo quell’acqua fredda e aspettiamo che passino i carri armati battendo i piedi sul ghiaccio.

Ma come faranno a passare di qua i panzer? Risaliamo la scarpata e qualcuno entra nelle prime isbe del villaggio. Ma c’è nervosismo in noi; l’autoblinda di poco prima, i camion incendiati, un silenzio strano. Parliamo sottovoce pensando che i russi non dovrebbero essere lontani. Faccio postare le armi sull’orlo superiore della scarpata. Intanto la colonna si è mossa, scendono lentamente verso di noi come un delta di fiume. Vediamo le strisce nere che si muovono sulla neve piú chiara. Un po’ piú a monte di noi c’è un ponte di legno e i carri armati provano a passare uno alla volta. Ma sono pesanti i panzer e il ponte di legno è piccolo. Ce la farà a sostenerli? Tutta la nostra attenzione è lí sulle assi del ponte.

Il primo passa lentamente. Il ponte traballa tutto e scricchiola. Ora anche gli altri tentano di passare. Due soldati tedeschi sotto il ponte, uno da una parte e uno dall’altra, osservano le travature e ogni tanto gridano qualcosa.

Uno alla volta i panzer passano tutti.

I primi della colonna sono già arrivati alle isbe del paese. I camini fumano. Staranno bollendo le patate, qualcuno dormirà già e noi siamo sempre qui con le armi piazzate. Penso che sarebbe meglio andarcene anche noi al caldo con loro. Chi è che ci fa stare qui al freddo con le armi piazzate? Perché lo facciamo? Il maggiore Bracchi è andato via con un ufficiale tedesco, e i nostri ufficiali ci hanno detto di restare qui. Finalmente qualcuno viene a dirci che possiamo anche noi entrare in paese. Ma poi ci faranno ancora aspettare sulla strada davanti a un grande edificio in mattoni rossi. Poi entriamo. Ci stipiamo nelle stanze. Alcuni hanno trovato anche della paglia, si sono sdraiati e dormono. Tardivel e Artico, i caporalmaggiori del secondo plotone fucilieri, hanno acceso il fuoco in un angolo della stanza e fanno bollire galletta e scatoletta. Il locale è pieno di fumo, ma è vasto e freddo; siamo dentro in due plotoni. Nella tasca del pastrano ho ancora del caffè in chicchi e lo pesto nell’elmetto con il manico della baionetta. Non ho niente da mangiare. Nella cacciatora trovo alcune tavolette di meta, le accendo e con l’acqua della borraccia riempita al fiume tento di farmi un po’ di caffè. Ma l’acqua non vuol saperne di bollire, il meta fa poco calore. Ho sonno, molto sonno, sento che i miei compagni già russano e io sono intestardito a voler fare il caffè e l’acqua non bolle. I fuochi sono spenti e tutti dormono, dalle finestre senza vetri entra il gelo della notte, gli alpini sono uno addosso all’altro per riscaldarsi. Fucili ed elmetti sono allineati attorno alle pareti. Qualcuno nel sonno si lamenta e uno in un angolo, solo e triste, si osserva un piede; poi lentamente se lo sfrega e lo fascia con un pezzo di coperta; si è acceso vicino un mozzicone di candela, l’ha incollato al coperchio della gavetta. L’acqua non bolle ancora e allora butto dentro il caffè pestato e bevo tutto. Mi sdraio, i piedi sono come due pezzi di sasso bianco ma non voglio levarmi le scarpe. Mi rannicchio, vorrei farmi entrare le gambe nel ventre e le braccia nel petto. Ma con questo freddo non si può dormire.

– Allarmi! Allarmi! – Sento il capitano che mi chiama: – Rigoni! Scendi immediatamente con le armi. Adunata, – grida e bestemmia. Io salto in piedi, non ho ancora dormito un minuto, e grido: – Sveglia! Sveglia, fate presto e calma –. Succede un trambusto generale, chi si era levate le scarpe non è piú capace di rimetterle perché i piedi si sono gonfiati e le scarpe sono dure come il legno. Chi cerca il fucile e chi l’elmetto, qualche altro ha un sonno pesantissimo e lo sveglio a scossoni.

Per le scale e i corridoi vi è una confusione peggiore.

Vi sono gli artiglieri del Valcamonica; si passa a fatica non senza inciampare in qualcuno che non si può alzare e si lamenta. Fuori, davanti all’edificio, ci raduniamo.

Molti uomini mancano né si capisce dove siano; mi manca anche un’arma, ma è quella che non funziona. Il capitano entra nell’edificio e nello stanzone trova l’arma che manca. Quando scende se la prende con me. – Capitano, – dico, – l’ho lasciata lí io perché non funziona. È tutta scassata e portarla è un peso inutile. Guardate in che condizioni siamo. Abbiamo anche poche munizioni

–. Ma queste ragioni il capitano non le intende e risalgo io stesso a prenderla.

I plotoni di Moscioni, Cenci, Pendoli sono già spariti, inghiottiti nel buio, in direzioni diverse. Con il tenente che fa il bravaccio andiamo con le tre pesanti verso le ultime isbe a sinistra del paese. Faccio star sotto gli alpini del mio plotone e come un cane da pastore vado avanti e indietro: – Sotto Bodei, forza Tourn, cammina Bosio; venite avanti con le cassette di munizioni –. E cosí arriviamo nel luogo assegnatoci dal capitano. Chissà che cosa è successo, forse ci stanno venendo addosso i russi.

Non riesco a rendermi conto della situazione. Ogni tanto sentiamo degli spari alla nostra destra. Postiamo le armi, pronte per far fuoco; una all’angolo di un’isba e l’altra davanti a un piccolo cocuzzolo. Faccio puntare in due direzioni differenti, cosí a istinto, verso la steppa. È notte fonda, forse le due del mattino, il cielo si copre lentamente e la luna che sta tramontando alle nostre spalle, tra uno squarcio e l’altro delle nubi, illumina la steppa davanti a noi. Quando esce dico ai miei compagni di mettersi nell’ombra.

Il tenente entra nell’isba piú vicina. Sono povere isbe, piú povere delle solite, piccole e fredde anche a guardarle. Ma il tenente esce subito impugnando la pistola.

Mi grida di correre da lui. Vado ed entro con una bomba in mano. Vi sono due donne e dei bambini e vuole che li leghi. Penso che il tenente stia proprio perdendo la ragione. Le donne e i bambini hanno capito e mi guardano con occhi terrorizzati. Piangendo si rivolgono a me parlando in russo. Che voce avevano le donne e i bambini! Sembrava il dolore di tutta l’umanità e la speranza. E la rivolta contro tutto il male. Prendo per un braccio il tenente ed usciamo. Il tenente, sempre impugnando la pistola, entra in uníaltra isba. Lo seguo.

Qui trovo dei soldati sbandati della divisione Vicenza.

Stanno rannicchiati sotto il tavolo, disarmati, semiassiderati, e pieni di paura. Su un letto di ferro c’è un vecchio.

Il tenente mi grida: – È un partigiano, ammazzalo! – Il povero vecchio mi guarda sospirando e tremando tutto da far ballare il letto. – Legalo, se non vuoi ammazzarlo,

– mi grida ancora il tenente. Antonelli è entrato nell’isba e ha visto tutto. Il tenente mi indica in un angolo un pezzo di corda. È proprio pazzo. Mi chino lentamente a prendere la corda; Antonelli leva le coperte al vecchio e mi avvicino. Il vecchio! Il vecchio è un povero paralitico e getto via la corda e dico al tenente: – Che partigiano, e partigiano. È un paralitico! – Il tenente esce dall’isba, si vede che ha ancora un briciolo di ragione. Sotto il tavolo vi sono sempre quei poveri diavoli della Vicenza pieni di paura e io li invito a venire con noi. – Non m’affido; non míaffido, – dicono. E rimangono. Esco con Antonelli e lasciamo in pace quella povera gente.

Sotto, dove è appostata un’arma, proprio sotto terra sento dei bisbigli. C’è una botola. È uno di quei buchi in cui i russi ripongono le provviste per l’inverno: una specie di cantina vicino all’isba. Tiro su la botola. Vediamo giú un lume acceso e donne e bambini stretti lí sotto.