Lombardi! Non posso ricordare il suo viso senza che si rinnovi in me un fremito. Alto, taciturno, cupo. Quando lo guardavo in viso non mi sentivo di fissarlo a lungo e quando, molto di rado, sorrideva, faceva male al cuore.
Sembrava facesse parte di un altro mondo e sapesse delle cose che a noi non poteva dire. Una notte, mentre mi trovavo da lui, venne una pattuglia russa, e le pallottole dei mitra sfiorarono l’orlo della trincea. Io, allora, abbassai il capo e guardai attraverso la feritoia. Lombardi, invece, stava ritto con tutto il petto fuori e non si muoveva di un filo. Io avevo paura per lui, sentivo di arrossire per vergogna. Una sera, poi, durante l’attacco dei russi, venne il sergente Minelli a dirmi che Lombardi era morto con una pallottola in fronte mentre, fuori della trincea, ritto in piedi, sparava con un mitragliatore imbracciato. Ricordai allora com’era sempre stato taciturno e il senso di soggezione che mi dava la sua presenza.
Pareva che la morte fosse già in lui.
La cosa piú buffa era quando portavamo davanti alla trincea i gabbioni dei reticolati. Ricordo un alpino, piccolo, sempre attivo, con la barba secca e rada, porta-arma tiratore veramente in gamba della squadra di Pintossi. Lo chiamavamo «il Duce». Bestemmiava in un modo tutto suo particolare ed era ridicolo a vedersi perché indossava un camicione bianco piú lungo di lui, cosí che, camminando, questo s’impigliava sempre sotto gli scarponi scatenando una fila di bestemmie che lo sentivano anche i russi. S’impigliava spesso anche fra i gabbioni di filo spinato che portava con il suo compagno e allora neanche tirava il fiato per bestemmiare, e includeva la naia, i reticolati, la posta, gli imboscati, Mussolini, la fidanzata, i russi. Sentirlo era meglio che andare a teatro.
Venne anche il giorno di Natale.
Sapevo che era il giorno di Natale perché il tenente la sera prima era venuto nella tana a dirci: – é Natale domani! – Lo sapevo anche perché dall’Italia avevo ricevuto tante cartoline con alberi e bambini. Una ragazza mi aveva mandato una cartolina in rilievo con il presepio, e la inchiodai sui pali di sostegno del bunker. Sapevamo che era Natale. Quella mattina avevo finito di fare il solito giro delle vedette. Nella notte ero andato per tutti i posti di vedetta del caposaldo e ogni volta che trovavo fatto il cambio dicevo: – Buon Natale!
Anche ai camminamenti dicevo buon Natale, anche alla neve, alla sabbia, al ghiaccio del fiume, anche al fumo che usciva dalle tane, anche ai russi, a Mussolini, a Stalin.
Era mattina. Me ne stavo nella postazione piú avanzata sopra il ghiaccio del fiume e guardavo il sole che sorgeva dietro il bosco di roveri sopra le postazioni dei russi. Guardavo il fiume ghiacciato da su dove compariva dopo una curva fin giú dove scompariva in un’altra curva. Guardavo la neve e le peste di una lepre sulla neve: andavano dal nostro caposaldo a quello dei russi. «Se potessi prendere la lepre!», pensavo. Guardavo attorno tutte le cose e dicevo: – Buon Natale! – Era troppo freddo star lí fermo e risalendo il camminamento rientrai nella tana della mia squadra. – Buon Natale! – dissi, – buon Natale!
Meschini stava pestando il caffè nell’elmetto con il manico della baionetta.
Bodei faceva bollire i pidocchi.
Giuanin stava appollaiato nella sua nicchia vicino alla stufa.
Moreschi si rammendava le calze.
Quelli che avevano fatto gli ultimi turni di vedetta dormivano. C’era un odore forte lì dentro: odore di caffè, di maglie e mutande sporche che bollivano con i pidocchi, e di tante altre cose. A mezzogiorno Moreschi mandò per i viveri. Ma siccome quel rancio non era da Natale si decise di fare la polenta. Meschini ravvivò il fuoco, Bodei andò a lavare il pentolone in cui aveva bollito i pidocchi.
Tourn e io si voleva sempre stacciare la farina e, chissà dove e come, un giorno Tourn riuscí a trovare uno staccio.
Ma quello che restava nello staccio, tra crusca e grano appena spezzato, era piú di metà e allora si decise a maggioranza di non stacciarla piú. La polenta era dura e buona.
Era il pomeriggio di Natale. Il sole incominciava ad andarsene per i fatti suoi dietro la mugila e noi si stava nella tana attorno alla stufa fumando e chiacchierando.
Venne poi dentro il cappellano del Vestone: – Buon Natale, figlioli, buon Natale! – E si appoggiò con la schiena ad un palo di sostegno. – Sono stanco, – disse, – ho fatto tutti i bunker del battaglione. Quanti ce ne sono ancora dopo il vostro?
– Una squadra sola, – dissi. – Dopo viene il Morbegno.
– Dite il rosario stasera e poi scrivete a casa. State allegri e sereni e scrivete a casa. Ora vado dagli altri. Arrivederci.
– Non ha neanche un pacchetto di Milit da darci, padre?
– Ah, sí! Prendete.
E ci butta due pacchetti di Macedonia e va fuori. Meschini bestemmia. Bodei bestemmia. Giuanin dalla sua nicchia dice: – Zitti, è Natale oggi! – Meschini bestemmia ancora piú fiorito: – Sempre Macedonia, – dice, – e mai trinciato forte o Popolari o Milit. Questa è paglia per signorine.
– Boia faus, – dice Tourn, – Macedonia.
– Porca la mula, – dice Moreschi, – Macedonia.
Poi mandai fuori la prima coppia di vedette perché era buio. Ero lí che mi grattavo la schiena vicino alla stufa quando entrò Chizzarri a chiamarmi: – Sergentmagiú,
– disse, – ti vogliono al telefono. È il capitano –. Mi infilai il pastrano e presi il moschetto domandandomi cosa potessi aver fatto di male. Il telefono era nella tana del tenente. Il tenente era fuori, forse a passeggiare lungo la riva del fiume per sentire gli starnuti delle vedette russe.
Era proprio Beppo, il capitano, che mi voleva su a Valstagna, al comando di compagnia. Aveva qualcosa da dirmi. «Che sarà?» pensavo, mentre andavo su alla chiesa diroccata.
Con la faccia tonda e rossa il capitano mi aspettava nella sua tana che era larga e comoda. Aveva il cappello sulle ventitre con la penna diritta come un coscritto, le mani in tasca. – Buon Natale! – disse. E poi mi tese la mano e poi un bicchiere di latta con dentro cognac. Mi chiese come andava al mio paese e come al caposaldo.
Mi cacciò tra le braccia un fiasco di vino e due pacchi di pasta. Ritornai giú alla mia tana saltando fra la neve come un capretto a primavera. Nella furia scivolai e caddi ma non ruppi il fiasco né mollai la pasta. Bisogna saper cadere. Una volta sono scivolato sul ghiaccio con quattro gavette di vino e non versai una goccia: io ero giú per terra ma le gavette le avevo salde in mano con le braccia tese a livello. Ma era successo in Italia di aver quattro gavette di vino, al corso sciatori.
Quando arrivai al caposaldo le vedette mi diedero l’alt-chi-va-là-parola-d’ordine e gridai, forte che mi sentirono anche i russi: – Pastasciutta e vino!
Un giorno che, sdraiato sulla paglia, guardavo i pali di sostegno e pensavo che parole nuove dovevo scrivere alla ragazza, venne Chizzarri a dirmi che il tenente Cenci aveva telefonato che andassi da lui a fare due chiacchiere.
Infilai il camminamento che portava al suo caposaldo.
Mi pareva di essere al paese come quando si va da una contrada all’altra per trovare un amico e far due chiacchiere all’osteria. Ma dal tenente Cenci era differente. Aveva una tana tutta bianca scavata nel gesso, mentre le nostre erano nere. C’erano dentro un lettino ben rifatto, con le coperte pulite e senza una grinza, un tavolo con sopra una coperta da campo, alcuni libri, e il lume a petrolio che pareva un soprammobile. Vicino all’entrata, in una nicchia, una fila di bombe a mano rosse e nere parevano fiori. Presso il lettino, appoggiato alla parete, il moschetto lucido: accanto a questo l’elmetto sospeso ad un chiodo. Per terra non vi era un filo di paglia o una cicca. Prima di entrare battei e strisciai le scarpe per non portar dentro neve.
Il tenente Cenci, sorridente, mi aspettava in piedi nella sua divisa pulita e con il passamontagna bianco risvoltato intorno al capo come il turbante di un indiano. Mi chiese della ragazza, si parlava di cose belle e gentili, e poi chiamò l’attendente a fare il caffè.