Salgono la scaletta ed escono fuori uno alla volta con le mani alzate. Mi viene da sorridere ma i bambini piangono. Ma quanti sono? Non finiscono mai. Antonelli ride e dice: – C’è un formicaio là sotto –. Mando tutta quella gente nelle isbe e ci vanno contenti e di corsa. Fortuna per loro che il tenente non si è accorto di niente. Dopo un po’ un ragazzino ci porta delle patate calde bollite.
Due bombe di artiglieria passano sibilando sopra di noi e scoppiano all’altra estremità del paese. Mi accorgo che due colonne nella steppa stanno venendo verso di noi. Russi o nostri sbandati? Sono ancora lontani ed è notte. Ogni tanto la luna esce ad illuminare la steppa ma ora s’è fatto quasi completamente buio. Il tenente è ritornato. Si è accorto anche lui della gente che sta venendo verso di noi. Forse è ritornato per questo. – Sparate!
– dice. – Sparate! Avanti, sparate. – No, – dico io, – non sparate; state calmi, non fate rumore.
Le armi erano piazzate, il tenente diceva: – Sparate, sparate vi dico –. E io: – No. Bisogna aspettare che siano piú vicini, abbiamo poche munizioni e poi potrebbero anche essere italiani o tedeschi –.
I pochi uomini che mi sono rimasti dei cinquanta del plotone hanno ancora fiducia in me, e non sparano. – È matto il tenente, – dice Antonelli. – È matto, – dice qualcun altro. – Perché sparare? non c’è nessuna necessità.
Sparano per il paese. Che succede ora? Pallottole sperdute passano miagolando fra gli orti e le isbe; ma il nostro angolo è tranquillo.
Ramazzini, un portaordini in gamba di Collio Valtrompia, viene di corsa e mi dice trafelato: – Presto Rigoni, fa’ presto, bisogna che tu ti riunisca con la compagnia.
Come ombre smontiamo le armi e ce le carichiamo in spalla con le munizioni e, in fila, senza dire una parola, ritorniamo presso l’edificio in mattoni. Non troviamo nessuno dei nostri. La compagnia è partita senza aspettarci.
Il paese è tutto in trambusto. Slitte che si incrociano, ufficiali che gridano, gente che va in ogni direzione. Infine la colonna si forma. Camminiamo in fretta ai lati della pista per portarci avanti e raggiungere la compagnia.
Ma è piú faticoso perché dobbiamo batterci la strada nella neve fresca. Bombe scoppiano davanti e dietro a noi, qualche volta colpiscono in pieno la colonna. Ma è tutto cosí apatico e freddo. Si bada ai colpi di artiglieria come ai morsi dei pidocchi.
Viene l’alba livida e grigia, incomincia a nevicare.
Guardo indietro, siamo rimasti in pochi, forse dieci; ma le armi le abbiamo sempre con noi, manca qualche cassetta di munizioni. Nemmeno il tenente c’è, chissà dove sarà rimasto. Camminiamo ancora ai lati della colonna fiancheggiando un bosco di abeti; siamo tutti bianchi di neve come gli abeti. Un tedesco, aviatore dalla divisa, cammina lentamente davanti a noi, ha i piedi fasciati di stracci, lo sorpassiamo. Sorpassiamo qualche slitta di tedeschi e ungheresi.
Ora si sono fermati tutti perché in testa alla colonna sparano. Noi continuiamo a camminare. Troviamo gli artiglieri alpini, qui siamo tra i nostri, avanti ancora. Finalmente raggiungiamo la nostra compagnia. Il capitano ci vede arrivare e non dice niente. Stiamo fermi; in testa c’è il Valchiese. Si sentono sparare le nostre pesanti e il gruppo Bergamo mette in batteria i pezzi. Bisogna conquistare un altro paese per passare. Ma sparano poco. Si riprende a camminare lentamente e cosí, ora, ci sembra di riposare. Veniamo raggiunti anche da qualche altro alpino del nostro plotone. Qua e là sulla neve si vedono dei bossoli vuoti, macchie nere di scoppi, solchi di cingoli dei panzer.
Il paese è rivolto a levante, dietro una mugila. Scende verso il fondo di una balca ed è circondato da alberi da frutto. Si sentono abbaiare i cani nell’aria chiusa dalla neve. Il maggiore passa tra noi e dice: – Qui riposeremo; andate nelle isbe, mangiate e dormite; forse si ripartirà domattina –. A noi non sembra vero poter riposare tutta una notte. Al caldo tutta la notte!
Scelgo una bella isba verso il centro del paese. Entriamo e mettiamo vicino al fuoco le armi incrostate di neve e ghiaccio. Andiamo in un’altra isba a prendere tre galline (penso che non è giusto prenderle dove siamo ospitati, altri poi verranno a prenderle qui). Siccome il paese è in pendenza e noi siamo in un punto dominante vediamo dall’alto l’affaccendarsi della gente che sta arrivando. Alpini della mia compagnia inseguono un maiale che corre a zig zag sulla neve come un pipistrello; gli sparano anche col fucile.
Infine lo prendono e lo finiscono. Corrono, gridano e ridono; pare un giorno di sagra per loro.
Rientriamo nell’isba a spennare le galline tra le grida di gioia della padrona di casa. Mettiamo l’acqua a bollire; chi porta paglia per il giaciglio, e chi legna.
Infine ci sediamo sulle panche attorno al fuoco. È bello vedere il fuoco; stiamo bene, siamo contenti e non pensiamo a nulla. Ma nemmeno qui si può stare tranquilli. È entrato il capitano. – Rigoni, che cosa fai qui? – mi dice, e si è rotto l’incanto. Guarda le galline, il fuoco, la paglia, la legna. – Che cosa fate qui? – ripete. Entrano anche attendenti, furieri e portaordini. – Rigoni, vai con gli uomini e le armi laggiú in quell’isba –. E il capitano me la indica, attraverso la porta aperta e la neve che cade, giú in fondo alla balca. – Devi andare laggiú e piazzare le armi in quella direzione, – e me la segna con la mano. Dice: – Vi può essere un attacco da un momento all’altro; di partigiani o di soldati. Piazzate le armi e datevi il turno per riposare e riscaldarvi –. Si tiene per sé l’isba calda con il focolare e la paglia e non ci lascia prendere nemmeno le galline. Antonelli bestemmia e anche gli altri imprecano ma come sempre mi seguono.
Questo è peggio che andare all’attacco. Scendiamo verso il fondo del paese. L’isba è vuota e fredda. Postiamo le armi e cerchiamo di sistemarci alla meno peggio. Accendiamo il fuoco. Ma nevica e le armi s’incrostano subito di ghiaccio. Cosí finirà che non potranno sparare e una la porto dentro, e l’altra la piazzo nel vano tra la porta interna e la porta esterna dell’isba, con la canna rivolta verso la steppa.
Poi il capitano ci manda giú due galline, e le cuciniamo nelle gavette. Ci lasceranno tranquilli, adesso. Mi fermo sulla porta a guardar nevicare e sento rumore di motori nell’aria. Sono aeroplani. Volano bassi ma nella neve non si distingue se sono nostri o russi. Il rumore giunge ovattato. Vedo bene però che se ne staccano delle cose oscure e poi che si aprono dei paracadute. Corro ad avvertire il capitano. Penso che siano dei paracadutisti russi. Sono in molti e scendono lentamente sulla mugila di fronte a noi, al di là dei frutteti. Il capitano guarda e non sa cosa dire. Subito, però, veniamo a sapere che non si tratta di paracadutisti russi ma di munizioni, medicinali, benzina lanciati dai tedeschi.
Ritorno al mio plotone, le due galline sono cotte e le dividiamo in quindici. Ma nemmeno adesso possiamo stare in pace: si è fermata qui davanti una slitta carica di feriti del gruppo Bergamo. Un capitano mi chiede ospitalità. – Le altre isbe sono tutte occupate, – dice, – lasciateci entrare. Siamo feriti –. Intanto è giunta un’altra slitta di feriti e cosí lasciamo a loro il posto e il brodo delle galline.
Proviamo a sistemarci in una piccola stalla lí vicino, ma è aperta ai quattro venti. Il capitano ci manda a dire che poco lontano da noi, a protezione del paese, si è appostato un altro plotone di un’altra compagnia e che noi possiamo ritirarci. Ma dove possiamo andare ora a passare la notte? é già quasi buio. Bussiamo a delle isbe: sono tutte occupate. Finalmente riusciamo a trovare i nostri fucilieri. Ci dànno ospitalità. Ma non ci stiamo tutti: sul tavolo, sotto il tavolo, sulle panche, sotto le panche, sopra il forno, per terra. Mi devo accontentare di restare in piedi vicino al forno. Ma fuori c’è la tormenta ora, e qui fa caldo. Anche troppo caldo L’isba è satura di vapore, di fumo, di odori. Tardivel mi chiede se ho mangiato.