Hanno ammazzato una pecora, e mi dà fegato cucinato con la cipolla nel grasso della pecora. È incredibile quanto sia buono il fegato e che buon compagno sia Tardivel che ha fatto tre anni di Africa e otto di naia alpina.
Cenci, che è con il suo plotone in un’isba di fronte a questa, mi manda a dire che se qui siamo troppo stretti qualcuno può andare da lui. Andiamo in quattro.
Mi allungo sotto il tavolo, distendo le gambe e mi sembra che in nessun altro posto del mondo si possa star bene come qui. Il lume a olio si affievolisce sempre piú; Cenci parla sottovoce con un alpino, si sente frusciar la paglia, il fuoco nel forno e il russare calmo dei primi addormentati. E io penso a una luna grande che illumina il lago, a una strada tutta fiancheggiata da giardini odorosi, a una voce calda, a un riso tintinnante e al rumore delle onde sulla riva. È meglio che allora, fuori c’è la tormenta e mi addormento.
Battono. Battono alla porta. Non in modo brusco, in maniera civile, da città; ma insistentemente. Qualcuno si sveglia e brontola. Il tenente Cenci dice: – Chi sarà? –
Battono e si sente la tormenta. Mi alzo al buio e vado ad aprire. Un soldato italiano, a testa scoperta e senza pastrano, mi guarda tranquillamente. Calmo mi dice: –
Buona sera, ingegnere. È in casa suo padre? – Lo guardo fisso. – Buona sera, – dico. – Volete entrare? – E lui:
– é in casa suo padre, ingegnere? – Sí, – dico; – ma dorme. Che volete? – Sono venuto per gli articoli, – risponde, – raccomando a lei la pubblicazione. Ma ritornerò piú tardi quando suo padre sarà alzato. Arrivederci. Ritornerò piú tardi –. E cosí si allontana tranquillamente a capo chino, le mani dietro la schiena, e sparisce nella tormenta e nella notte. Quando rientro Cenci dice: –
Chi era? – Uno che cercava mio padre, aveva degli articoli da pubblicare, ritornerò piú tardi, ingegnere, buona sera –. Cenci mi guarda in silenzio e mi osserva finché io ritorno a sdraiarmi sotto la tavola.
Ci svegliamo di soprassalto: una pallottola è entrata schiantando i vetri della finestra piantandosi nella parete di fronte sopra la mia testa. – Allarmi! Allarmi! – si sente gridare. – I partigiani! – Usciamo con precauzione. Ombre corrono di qua e di là; le pallottole passano per l’aria come vespe. Mi metto sotto una siepe vicino all’isba e aspetto di vedere cosa succede. Da breve distanza una vampata nella mia direzione. Sento la pallottola passarmi sopra. Balzo da un lato, sparo in direzione della vampata e faccio un salto. Silenzio. Poi sento parlare: sono italiani. Per fortuna non ho colpito nessuno.
Li chiamo, mi rispondono e vanno via. Non si capisce cosa stia succedendo, sto li fermo e solo. Dall’altra parte della balca scendono persone gridando: – Taliani non sparare. Deutschen Soldaten! Non sparare. Camarad! – Sono tedeschi ch’erano stati presi per partigiani.
Ma può anche darsi che ci siano stati realmente dei partigiani. Rientriamo nelle isbe, dormiamo ancora un’ora e viene l’alba.
Da quell’alba non ricordo piú in che ordine i fatti si siano susseguiti. Ricordo solo i singoli episodi, il viso dei miei compagni, il freddo che faceva. Certe cose chiare e limpide. Altre come un incubo. Cadenzate dalla voce di Bracchi che ci rincuorava: – Forza s’cet! – O che ci dava gli ordini: – Avanti il Vestone! Avanti il gruppo Bergamo! Avanti il Morbegno!
È mattina, la colonna si divide in due. Il Vestone è di punta nella colonna di sinistra. In testa la mia compagnia. C’è un bel sole e non fa freddo. Da una pista vediamo venire verso di noi degli automezzi, a una certa distanza si fermano. Gli ufficiali guardano con i binocoli: sono russi. Arrivano subito dei cannoni anticarro tedeschi, in fretta li mettono in posizione e sparano qualche colpo. Gli automezzi spariscono nella steppa come sono venuti. Poco dopo, forse mezz’ora, nell’affiorare all’estremità di una mugila, siamo accolti da una nutrita sparatoria di armi automatiche. Stando laggiú in quel paese i russi vedranno spuntare solo le nostre teste e sparano. Le pallottole passano alte. Ritorniamo indietro di qualche decina di metri e aspettiamo. Arrivano le altre compagnie del Valchiese e l’automezzo cingolato tedesco con su gli ufficiali superiori. Ora bisognerà conquistare questo paese per poter passare.
Risaliamo la mugila e scendiamo per l’altro versante verso il paese. Alla nostra destra il Valchiese. Alla sinistra le altre compagnie del Vestone.
I russi riprendono a sparare. Tourn, che cammina qualche passo dietro a me, viene ferito a una mano. Mi grida: – Sono ferito! – E agitando la mano che cola sangue sulla neve, ritorna indietro. Grido di sparpagliarci.
Sparano forte i russi. Ci stendiamo sulla neve cosí allo scoperto e poi riprendiamo a scendere. Dietro a un pagliaio, un po’ piú a destra di noi, si è fermato il capitano con gli esploratori. Li raggiungo con quelli che mi seguono. Sparano tremendamente forte in direzione del pagliaio e quando riusciamo a raggiungerlo tiriamo un sospiro di sollievo. Riparati là dietro proviamo il funzionamento della pesante. Smontiamo, puliamo, facciamo azionare energicamente la massa battente col carrello di armamento e controlliamo la valvola di recupero gas. Le pallottole continuano a passare ai lati del pagliaio e un portaordini, Ramazzini, che viene mandato da Moscioni con un biglietto del capitano, si accascia gemendo su se stesso appena è allo scoperto. Due suoi compagni di squadra e compaesani escono a prenderlo. Lo riportano al sicuro sempre fra le pallottole che sibilano. È stato colpito all’addome e ora geme sulla neve vicino a noi.
Sentiamo dei colpi di partenza e poi vediamo gli scoppi tra le isbe del paese: sono i nostri 75/13 e non ci sembra piú d’essere soli. Ora la pesante funziona e mi porto con Antonelli davanti al pagliaio. C’è una specie di bassa trincea di neve, mettiamo l’arma in postazione e ritorniamo dietro il pagliaio a prendere le munizioni.
Tutto il paese è lí davanti a noi, ora. Siamo l’arma, Antonelli e io. Gli altri sono dietro il pagliaio, o piú su, immobili nella neve. Spariamo a delle slitte che passano veloci tra uno steccato e l’altro e a un gruppo di soldati russi che stanno entrando in un’isba. Vediamo la loro sorpresa. Ma ora ci hanno visto e sparano anche loro. I nostri compagni riprendono ad avanzare. Quelli del Valchiese, lassú a destra, sono alla nostra altezza, camminano a fatica nella neve alta e i russi sparano. Sentiamo le raffiche. Alpini si trascinano lentamente indietro e altri si sostengono a vicenda. Mi porto con l’arma piú avanti e piú a sinistra per dominare meglio il paese. Riprendiamo a sparare. L’arma non inceppa un colpo, tutto sembra regolare. Io introduco caricatori e osservo il tiro, Antonelli spara. Da dietro il pagliaio il capitano grida: – Spara! Spara! Spara! – Ma finiamo le munizioni e grido: – Portateci munizioni –. Bodei, Giuanin e Menegolo camminano curvi verso di noi con tre cassette da trecento colpi. Dietro il pagliaio è arrivata una cassa grande, da basto, che avevano i conducenti della cinquantaquattro. Camminano curvi perché i russi sparano sul serio e vado loro incontro per aiutarli.
Il tenente Cenci osserva con il binocolo il paese e da una trentina di metri mi grida: – Rigoni attento! Vi sono dei russi che passano a gruppi sotto quel ponte in principio del paese. Io vedo quando partono. Tu puoi vederli appena sbucano di sotto al ponte. Ti avviserò delle partenze e tu allora tienti pronto a sparare. Eccoli che partono –. Io vedo che i russi escono correndo di sotto il ponte, li vedo per pochi metri, e poi saltano in un fosso.
Puntiamo l’arma in quel passaggio obbligato, saranno duecento metri da noi. Cenci grida: – Pronto Rigoni! – e Antonelli che ha gli occhi fissi laggiú spara. Cenci grida:
– Pronto! – Antonelli spara e io introduco caricatori. I russi corrono. Ma sparano anche su di noi. Proprio su Antonelli e me. E le pallottole passano vicinissime. Due colpiscono l’arma: a una gamba del treppiede e sotto lo zoccolo dell’alzo: e pallottole entrano nella neve sollevando piccoli spruzzi davanti, di fianco e dietro a noi.