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Antonelli bestemmia: la nostra pesante si è inceppata.

Mi alzo in piedi e apro il coperchio dell’arma. Una cosa da poco. Antonelli bestemmia e mi dice: – Abbassati che ti ammazzano –. Riprendiamo a sparare e mi posto davanti una sull’altra le cassette di munizioni. «Qualcosa ripareranno», penso.

Una ventina di metri dietro a noi c’è il tenente scomparso. Quello che avrebbe dovuto comandare il mio plotone. Sento che si lamenta e chiama. È ferito a una gamba. Gli grido che si ritiri da lí. Ma non si muove. Allora lo vengono a prendere due soldati della nostra compagnia, e io non l’ho piú rivisto. So che la gamba ferita gli andò in cancrena e che morí su una slitta, sicché ora mi sembra che fosse un buon diavolo anche lui.

I plotoni fucilieri che si sono distesi sulla neve un po’ dietro a noi si alzano e inastano la baionetta. Quelli del Valchiese scendono e anche gli altri che sono piú in là. Il nostro capitano è tra i primi e grida ordini imbracciando un parabellum russo. Andiamo anche noi ma l’arma è arroventata e cosí Antonelli che vuole prenderla per la canna, si scotta le mani. Ora ci raggiungono anche gli altri compagni di plotone. I russi non aspettano di venire alle corte e se ne vanno. Piazziamo ancora la pesante e spariamo a quelli che ritardano. Siamo alle prime isbe e qualcuno lancia delle bombe a mano. Intanto scendono sferragliando i carri armati tedeschi. Ho trovato per terra un disco rosso, di quelli che usano le autocolonne per le segnalazioni, e con questo mi metto a sbracciare in direzione dei panzer segnando via libera. I tedeschi passano ridendo. Appena entrano nel paese, quelli che sono sui carri saltano agilmente a terra, e io osservo il modo che hanno di occupare le isbe. Dànno un calcio alla porta, balzano da un lato, spianano la pistola mitragliatrice e poi pian piano guardano dentro. Dove vedono mucchi di paglia sparano dentro qualche colpo. E scrutano con le pile negli angoli bui e nei sotterranei.

Mi metto a girare da solo il paese. I borghesi sono quasi tutti scomparsi. I soldati nostri che entrano nelle isbe non fanno come i tedeschi. Aprono le porte e varcano le soglie senza sospetto. Mi imbatto in una pattuglia del genio alpino. Rimango meravigliato a vederli in quel luogo e chiedo loro di Rino. – È qui con noi, – mi dicono, – o almeno lo era sino a un momento fa –. E mentre parlo con loro vedo Rino attraversare di corsa la strada. Anche lui mi vede; ci chiamiamo e siamo uno nelle braccia dell’altro. Ha l’elmetto calcato in testa, stringe nella mano il moschetto e con l’altra mano mi afferra il collo. Rino! Tutta la mia giovinezza mi vedo davanti, il mio paese, i miei cari. Siamo stati a scuola insieme. Lo ricordo com’era da ragazzo e mi vien voglia di chiedergli perché sia cresciuto. Ma non so dirgli nulla.

Vedo il suo ardore, il suo desiderio di rendersi utile, di fare qualcosa per chi non sa fare o anche per chi non vuol fare, poi mi accade di trovarmi nuovamente solo.

Non so come sia stato, ed entro in un’isba per tornare subito fuori. Un cavaliere tedesco passa a galoppo per il paese gridando: – Ruski panzer! Ruski panzer! – Il rumore dei motori gli è dietro. Sento anche lo sferragliare dei cingoli. Impallidisco, vorrei farmi piccolo in modo da potermi cacciare in un buco da topo. Mi metto dietro a uno steccato e attraverso le fessure vedo i carri armati che passano a meno di un metro di distanza. Trattengo il fiato. Su ogni carro vi sono dei soldati russi con armi automatiche in pugno. È la prima volta che ne vedo in combattimento cosí da vicino. Sono giovani e non hanno la faccia cattiva, ma solo seria e pallida, e compunta, guardinga. Indossano pantaloni e giubboni imbottiti. In testa hanno il solito berrettone a punta con la stella rossa. Avrei dovuto sparare? I carri erano tre, passarono l’uno dopo l’altro rasente allo steccato, spararono qualche raffica cosí a caso e scomparvero. Io mi precipitai verso un’isba. Dentro c’erano tre ragazze. Erano giovani e mi sorridevano tentando cosí di indurmi a non cercare quello per cui ero entrato. Trovai del latte e ne bevetti un poco; e, in un cassetto, tre scatole di marmellata, alcune gallette, del burro. Tutta roba italiana presa forse in qualche magazzino militare abbandonato. Le tre ragazze, ora, quasi piangevano e mi si facevano attorno con preghiere. Mi sforzai di spiegar loro che quella era roba italiana e non russa, e che quindi potevo prendermela, e che avevo fame e che i miei compagni avevano fame. Ma le ragazze quasi piangevano, mi guardavano supplichevoli, e cosí lasciai loro una scatola di marmellata e un pacchetto di burro. Uscii con il resto della roba rosicchiando una galletta. Le tre ragazze guardavano per terra e dicevano: – Spaziba.

Fuori feci in tempo a vedere le ultime cannonate che si scambiavano i carri russi e tedeschi. Mentre ero nell’isba non avevo sentito niente. Le ragazze mi avevano fatto dimenticare la guerra per un attimo. Seppi piú tardi che il cavaliere passato poc’anzi gridando aveva avvisato i carri tedeschi che si erano appostati fuori dal paese. E i carri russi, ora, bruciavano tutti, e sulla neve si vedevano i segni del breve combattimento: solchi di improvvise virate, di giri viziosi, di fermate brusche, e chiazze nere di olio e d’altro. Un carro era stato colpito nei cingoli e i cingoli segnavano la neve come due strisce nere tracciate su un foglio bianco: tristi come moncherini di una cosa già viva. Cadaveri bruciavano vicino ai carri. Dei soldati russi che scesero da un carro caddero subito sulla neve. Un tedesco si avvicinò cauto, strisciando quasi, e da pochi centimetri sparò nella nuca ai russi.

Gli altri tedeschi, da poco piú lontano, facevano fotografie e ridevano, agitavano le braccia e parlavano, mostrando sulla neve i segni del combattimento. Ma da un carro russo che bruciava partí una raffica di arma automatica in direzione dei tedeschi e questi si sparpagliarono subito come uno stormo di uccelli. Due salirono sul loro carro e tirarono un colpo di cannone al carro russo e questo, colpito nella riserva delle munizioni, saltò in aria come si vede qualche volta al cinematografo. Io assistevo all’accaduto da non molto lontano, e tutti i russi che avevo visto passare di dietro a un semplice steccato, ora erano lí, morti, nella neve.

Gli alpini del mio e degli altri plotoni si erano radunati nelle vicinanze e io vado da loro. Distribuisco quel po’ di roba che avevo trovato nell’isba e per me spalmo su una galletta un po’ di burro e marmellata. Il capitano ha visto; mi chiama e mi rimprovera davanti a tutti, perché, dice, questo non è il momento di mangiare o di pensare a mangiare e mi fa mettere via ogni cosa. Forse ha la febbre il capitano; non rispondo e mi ritiro in disparte. Poi il capitano mi chiama e mi dice: – Dài qualcosa anche a me da mangiare.

Lasciamo il paese. Incontro Rino un’altra volta. – Ho bevuto un secchio di latte, – mi dice, e sorride.

Attraversiamo una palude gelata. Vi sono erbe alte e dure che potrebbero nascondere qualche sorpresa e procediamo cauti. La mia compagnia è in testa; le pattuglie di Cenci e Pendoli braccano il terreno davanti a noi, subito dopo vengo io; dietro vi sono le altre compagnie del Vestone, gli altri due battaglioni del sesto, le batterie del secondo da montagna, gli altri battaglioni del quinto, e poi l’interminabile fila degli sbandati. Italiani, ungheresi, tedeschi. Feriti, congelati, affamati, disarmati.

Sulla sommità di una mugila è apparso un carro russo e spara qualche colpo sulla colonna, ma un 75/13 della diciannove è pronto a rispondere e il carro russo scompare. Il maggiore Bracchi, il nostro capitano, un ufficiale tedesco, un maggiore di artiglieria sono dietro a noi e di tanto in tanto ci gridano degli ordini. Ci avviciniamo a un gruppo di costruzioni, magazzini per il grano forse.

Da uno di questi vediamo uscire gente che agita le braccia, grida verso di noi e ci viene incontro. – Sono dei nostri, sono dei nostri! – gridiamo. Pensiamo a mille cose ma la piú forte è: sono italiani, soldati italiani che ci vengono incontro dall’altra parte. «Siamo fuori dalla sacca», pensiamo. Diventiamo tutti allegri. Viene il desiderio di fare capriole sulla neve. Antonelli grida e canta.