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Camminiamo piú lesti e leggeri verso di loro, sembra di volare e di non arrivare mai. Ma l’illusione dura solo pochi minuti. Quando siamo vicini ci accorgiamo che sono senza armi. Vorrebbero abbracciarci. Sono qualche centinaio. Nella confusione, apprendiamo, in poche parole, che sono stati prigionieri dei russi, che dalle fessure delle baracche dov’erano custoditi hanno visto il combattimento volgere in nostro favore, e che le sentinelle russe sono scappate al nostro avvicinarsi. Noi vorremmo saper dell’altro, ma Bracchi taglia corto e li manda in coda alla colonna.

Cala la sera e camminiamo sempre nella steppa. Vediamo dei soldati italiani stesi rigidi nella neve uno di fianco all’altro. Dal colore delle fiamme e dal numero noto che sono del genio alpino della divisione Cuneense. La pista è dura, lucida di ghiaccio levigato dal vento.

Porto in spalla l’arma della Breda 37, e scivolo, e cado.

Mi rialzo, cammino e di nuovo cado. Quante volte cosí?

La compagnia ha serrato le file e si cammina in fretta. Il maggiore Bracchi mi cammina al fianco, mi guarda e tace. È notte: si cammina e ancora cado. Poi rimango indietro e Bracchi mi dice: – Forza, ci arriveremo –. Ma quanto è lontano ancora? Ora è qui anche il nostro generale. Ci sorpassa su un automezzo tedesco. Si ferma e ci guarda: – Bravi ragazzi, bravi ragazzi, – ci dice. Ci guardava passare uno per uno dall’automezzo. Dopo ci raggiunge ancora, cammina un poco con noi e dice forte: – Ancora poche ore e poi saremo fuori, a pochi chilometri c’è un caposaldo tedesco.

Un mio compagno, finalmente, mi dà il cambio a portare l’arma. Si cambia direzione. Gli ufficiali si sono fatti seri; tra loro dicono che una colonna di russi si è infiltrata fra noi e il caposaldo tedesco. Quando ci fermiamo a pernottare in un villaggio è notte. Non ne possiamo piú, siamo disperati di fatica, di freddo, di fame, di sonno.

Le scarpe le abbiamo di vetro sulla neve. Ci sentiamo nelle tasche le lettere che non possiamo spedire. «Avanti s’cet, forza s’cet». Polenta e latte in una cucina al caldo. «Ghe rivarem a baita?» Avanti, forza. E si cade per terra. Ma ora c’è un villaggio a cui siamo arrivati.

I panzer tedeschi si fermano alle prime isbe, noi andiamo alle ultime. Le isbe sono vuote e il villaggio è deserto. Le porte sono chiuse a chiave. Dobbiamo scardinarle per entrare. Il forno dell’isba dove siamo entrati è ancora caldo, ma non c’è nessuno. È un’isba pulita e tiepida; davanti alle icone arde ancora il lumino e vi sono tende alle finestre e drappi e fotografie alle pareti.

Chi porta legna e chi paglia. Nella stalla vicina vi sono due pecore e un maiale. Le pecore le diamo agli altri plotoni e noi ci ammazziamo il maiale.

A comandare il mio plotone mandano un ufficiale che ha la fama di iettatore. Entra nell’isba, si pianta in mezzo con le mani in tasca e comanda. Vuole che la paglia sia ben sparpagliata, le coperte tese e allineate, il pavimento pulito, e che il maiale venga cucinato cosí e cosí. Ha due occhi cattivi e duri, ed è alto e rigido. Comanda. Ma i miei compagni hanno piú buon senso di lui, non rispondono nulla, non dicono nulla, e continuano a fare come hanno sempre fatto da quando mi trovo con loro. «Domattina, penso, – vado dal capitano e, se non basta, dal maggiore e dal colonnello. Non voglio questo ufficiale nel mio plotone. Sono piú che sufficiente io. Se no mi mandino uno come Moscioni o Cenci».

Vengo a sapere che in un’isba vicina c’è Rino e vado a chiamarlo. Ho voglia di averlo con me, stanotte. Poi arrostisco sulla brace un pezzo di maiale e seduti sulla paglia mangiamo assieme. Infine ci sdraiamo, coprendoci con le coperte e i pastrani. Il tepore di un corpo riscalda l’altro, l’alito di uno riscalda il viso dell’altro, ogni tanto socchiudiamo gli occhi e ci guardiamo. Quanti ricordi fanno groppo alla gola. Vorrei parlare di casa nostra, dei nostri cari, delle nostre ragazze, dei nostri monti; degli amici. Ti ricordi, Rino, quella volta che l’insegnante di francese ci disse: – Una mela guasta può far marcire una mela sana, ma una mela sana non può sanare una mela guasta? – E la mela guasta ero io e la sana tu. Ricordi, Rino? E prendevo sempre quattro e tre. Tante cose vorrei dirti e non sono capace di augurarti la buona notte. I nostri compagni già dormono e noi ancora no. Fuori c’è la steppa desolata e le stelle che splendono di sopra a quest’isba sono le stesse che splendono di sopra alle nostre case. Ci addormentiamo.

Al mattino vado dal capitano a chiarire la situazione del mio plotone. Il capitano ne parla al maggiore. L’ufficiale nuovo viene mandato via e non lo vedrò piú. Sarà andato a far l’eroe fra gli sbandati. Cosí, da ora, rimarrò solo a comandare il plotone. Quei venti uomini che sono rimasti sono contenti e io pure. Antonelli piú di tutti.

Il sole nel cielo limpido ci riscalda le membra indolenzite e si continua a camminare. Che giorno è oggi? E dove siamo? Non esistono né date né nomi. Solo noi che si cammina.

Passando per un villaggio vediamo dei cadaveri davanti agli usci delle isbe. Sono donne e ragazzi. Forse sorpresi cosí nel sonno perché sono in camicia. Le gambe e le braccia nude sono piú bianche della neve, sembrano gigli su un altare. Una donna è nuda sulla neve, piú bianca della neve e vicino la neve è rossa. Non voglio guardare, ma loro ci sono anche se io non guardo.

Una giovane è con le braccia aperte, e ha sul viso un lino bianco. Ma perché questo? Chi è stato? E si continua a camminare.

Passiamo per una valletta stretta e deserta. Cammino con angoscia, vorrei che se ne fosse già fuori; mi sembra di soffocare. Guardo da tutte le parti con apprensione.

Ascolto e trattengo il fiato. Vorrei correre. Mi aspetto di veder comparire da un momento all’altro le torrette dei carri armati e di sentire le raffiche delle mitragliatrici.

Ma passiamo.

Ho fame. Quando ho mangiato l’ultima volta? Non ricordo. La colonna passa tra due villaggi distanti tra loro pochi chilometri. Lí ci sarà certamente qualcosa da mangiare. Dalla colonna si staccano dei gruppetti che vanno verso i villaggi in cerca di cibo. Gli ufficiali gridano, dicono che potrebbero esservi dei partigiani o delle pattuglie russe. Soldati del mio plotone vanno anch’essi in cerca di cibo. Durante una breve sosta ci fermiamo a bere ad un pozzo e poi vado in un’isba che mi sembra la piú vicina. Ma è una delle piú vistose ed è già stata visitata da molti. Non vi trovo che un pugno di fettine di mele essiccate che i russi usano per fare i decotti.

Si cammina e viene ancora notte. È freddo: piú freddo di sempre, forse quaranta gradi. Il fiato si gela sulla barba e sui baffi; con la coperta tirata sulla testa si cammina in silenzio. Ci si ferma, non c’è niente. Non alberi, non case, neve e stelle e noi. Mi butto sulla neve; e sembra che non ci sia neanche la neve. Chiudo gli occhi sul niente. Forse sarà cosí la morte, o forse dormo. Sono in una nuvola bianca. Ma chi mi chiama? Chi mi dà questi scossoni? Lasciatemi stare. – Rigoni. Rigoni. Rigoni! In piedi. La colonna è partita. Svegliati, Rigoni -. È il tenente Moscioni che mi chiama quasi con angoscia e aprendo gli occhi lo vedo curvo su di me. Mi dà un paio di scossoni e vedo bene il suo viso ora, e i due occhi scuri che mi fissano, la barba dura e lucente di brina, la coperta sopra la testa. – Rigoni, prendi, – dice. E mi dà due piccole pastiglie. – Inghiotti, fatti forza, avanti –. Mi alzo, cammino con lui e a poco a poco raggiungiamo la compagnia e capisco tutto... Ma quanti che si sono buttati sulla neve non si alzeranno piú? Cenci e Moscioni mi fanno salire su un cavallo. Ma è peggio che camminare; temo di congelarmi, ridiscendo e cammino. Cenci mi dà una sigaretta e fumiamo. – Di’ Rigoni, che desidereresti adesso? – Sorrido, sorridono anche loro. La sanno la risposta perché altre volte l’ho detta camminando nella notte. Entrare in una casa, in una casa come le nostre, spogliarmi nudo, senza scarpe, senza giberne, senza coperte sulla testa; fare un bagno e poi mettermi una camicia di lino, bere una tazza di caffè-latte e poi buttarmi in un letto, ma un letto vero con materassi e lenzuola, e grande il letto e la stanza tiepida con un fuoco vivo e dormire, dormire e dormire ancora. Svegliarmi, poi, e sentire il suono delle campane e trovare una tavola imbandita: vino, pastasciutta, frutta: uva, ciliege, fichi, e poi tornare a dormire e sentire una bella musica –. Cenci ride, Antonelli ride e anche i miei compagni ridono. –