Eppure lo voglio fare, se ci ritorno, – dice Cenci, – e poi,
– aggiunge, – un mese di mare alla spiaggia, sulla sabbia tutto nudo, solo con il sole che brucia –. Intanto camminiamo e Cenci vede il mare verde e io un letto vero. Ma Moscioni è serio, è il piú consapevole tra noi, ha i piedi nella neve e vede steppa, alpini, muli, neve. Laggiú si vede un lume. Non è il mare verde, non è il letto vero, è solo un villaggio.
Ma quel lume è come quello della favola. Anzi è piú lontano. Non ci si arriva mai. Il villaggio è piccolo e non c’è posto per tutti; siamo tra i primi, ma le isbe sono già tutte occupate. Dovremo forse passare il resto della notte all’aperto. Il capitano, Cenci, Moscioni e una metà della già ridotta compagnia vanno in cerca di alloggio.
Io rimango con il resto degli uomini e il mio plotone.
Il mattino dopo il capitano mi disse che aveva mandato un portaordini: da loro c’era posto per tutti. Ma io non vidi arrivare nessun portaordini, quella notte.
Parte dei miei compagni si sistemarono attorno a un pagliaio coprendosi poi di paglia. Altri andarono non so dove, e io rimasi solo con Bodei davanti a un fuoco.
D’un tratto si sentí belare e Bodei si alzò, andò a prendere la pecora che aveva belato e l’uccise vicino al fuoco. Io l’aiutai a scuoiarla e sul fuoco vivo mettemmo ad arrostire una coscia della pecora per ciascuno. La carne calda e sanguinolenta era incredibilmente buona. E dopo le cosce, abbrustolimmo il cuore, il fegato, i rognoni infilati alla bacchetta del fucile. Attorno al fuoco si abbrustoliva la carne della pecora e l’odore del fumo era grasso e buono. Mangiammo le braciole, e passavano le ore, poi il collo e le gambe anteriori. Vennero da noi, forse attratti dall’odore, due fanti italiani e un tedesco; finirono di mangiare la pecora; anzi spolparono le ossa che Bodei e io avevamo lasciato. Erano senza armi e al posto delle scarpe avevano stracci e paglia legati attorno ai piedi con filo di ferro. Facemmo loro un po’ di posto vicino al fuoco, e se ne stettero lí silenziosi. Non si alzavano nemmeno per andare in cerca di legna e Bodei brontolava; nemmeno il fumo scansavano con la testa.
Io avevo un gran sonno. Mi addormentai ma incominciava l’alba, e di lí a poco mi svegliarono i rumori che sempre precedevano la partenza della colonna. Raduno i miei compagni di plotone. Si va, ma la colonna, invece di proseguire, ritorna sulla pista di ieri. Che succede? Vediamo giú a destra un paese abbastanza grosso.
Dicono che vi sono i russi e che bisogna conquistarlo per lasciare la strada aperta agli altri dei nostri che seguiranno. – Avanti il Vestone! – gridano in testa, e ci fanno passare. Ora son pronti a farci passare. Ci viene comunicato da che parte attaccare e andiamo ancora una volta. Il plotone di Cenci e Moscioni a destra, io al centro e un po’ arretrato con la pesante, poi le altre compagnie del battaglione, infine i tedeschi. Da un fosso vengono fuori dei soldati russi con le mani alzate e i nostri li disarmano. Si sente qualche sparo qua e là, ma fiacco. Il maggiore Bracchi ci segue e ogni tanto ci grida degli ordini. Vediamo altri soldati russi che se ne vanno.
Non sembra una vera battaglia. La pesante non spara nemmeno un colpo. Noi siamo piú in alto e vediamo tutto. Raggiungiamo le prime isbe e aggiriamo il paese.
Troviamo un branco di oche che strepitano. Ne acciuffiamo alcune; e tiriamo loro il collo e ce le portiamo in spalla tenendole per la testa. È stata per le oche la battaglia. Dal centro del paese, dove c’è la chiesa, gridano adunata. È già finito tutto.
Andando in direzione della chiesa vediamo dei camion abbandonati di marca americana, vi sono anche dei cannoni piazzati con le munizioni accanto. Strano che i russi abbiano tanta artiglieria in un piccolo paese.
Ma perché non hanno sparato? Era un caposaldo ben munito. Stanotte la colonna è passata sull’orlo della mugila che sovrasta il paese. È stato là che io mi sono addormentato sulla neve. Non ci hanno sentiti. Eravamo veramente ombre. E mi ricordai di aver visto qualche chiarore nelle vicinanze. E che mi ero detto: «Perché non andiamo lí?» Pensando a queste cose vedo ora un’isba con la porta aperta ed entro. Non mi accorgo che entrando ho scavalcato un morto, un russo, messo di traverso sulla soglia. Nellíisba mi guardo attorno per cercare qualcosa da mangiare. C’è già qualcun altro che mi ha preceduto; vedo cassetti aperti, biancheria, merletti sparsi sul pavimento e cassapanche aperte. Frugo in un cassetto, ma poi in un angolo vedo delle donne e dei ragazzi che piangono. Piangono singhiozzando forte con la testa fra le mani e le spalle che sussultano. Allora mi accorgo dell’uomo morto sulla porta e vedo che lí vicino il pavimento è tutto rosso di sangue. Non so dire quello che ho provato; vergogna o disprezzo per me, dolore per loro o per me. Mi precipitai fuori come se fossi il colpevole.
Vi è di nuovo adunata. Stavolta è davanti alla chiesa.
Si vedono abbandonati dei camion italiani carichi di sacchi di patate secche tagliate a fette e mi riempio le tasche di queste. Sulla neve vi sono pure due botti di vino. Una è sfondata con dentro il vino gelato tutto a scaglie rosse.
Mi riempio la gavetta di scaglie rosse e me ne metto qualcuna in bocca. Un ufficiale dice: – State attenti, potrebbe essere avvelenato –. Ma non era affatto avvelenato.
I tedeschi si prendono tutti i prigionieri russi che abbiamo fatto, si allontanano e poi sentiamo numerose raffiche e qualche colpo. Nevica.
Si riprende a camminare. I reparti si confondono fra loro. Si alza un forte vento freddo. Siamo tutti bianchi.
Il vento sibila tra l’erba secca, la neve punge il viso. Ci attacchiamo uno all’altro. I muli degli artiglieri sprofondano sino alla pancia, ragliano e non vogliono andare avanti. Bestemmie, richiami, urli nella tormenta.
Un’altra notte in un altro villaggio. Non sono isbe quelle laggiú vicino a quegli alberi? Cammino solo in quella direzione; sprofondo nella neve sino al petto e avanzo come se nuotassi sognando un’isba. Raggiungo il punto dove credevo che fossero le isbe e non trovo che ombre. Ombre di che cosa? Torno indietro. Ma poi di nuovo ho l’impressione di vedere delle isbe. E vado da quella parte fino alla riva di un fiume. Anche qui però non c’è niente, ci sono solo tre betulle cariche di ghiaccioli che tendono i rami irsuti di ghiaccio al cielo carico di stelle. Piango in riva al fiume gelato. Dove sono i miei compagni? Avrò la forza di ritornare da loro? Li ritrovo in un edificio di mattoni. Il paese non era che a poche centinaia di metri e io avevo camminato nella direzione opposta. Fa freddo e quel po’ di fuoco che abbiamo acceso manda piú fumo che altro. La stanza è occupata in gran parte da un mucchio di grano. Ci sdraiamo sul grano, tutti sporchi di neve e con le coperte gelate. Sono innumerevoli giorni che non mi tolgo le scarpe e ora me le tolgo per farne sciogliere il ghiaccio e asciugarle. Subito i piedi mi si gonfiano. Le calze non le levo per la paura di vedermi i piedi bluastri con la pelle che si stacca. Mi addormento. Un bagliore improvviso e scoppi di bombe a mano ci svegliano di soprassalto. «Ci siamo», penso.
Non sono capace di mettermi le scarpe che trovo dure come legno. Afferro il moschetto e prendo le bombe a mano. Chi urla, chi piange, uno rompe i vetri della finestra e salta giú scalzo nella neve della strada. Striscio via sul mucchio del grano ad appostarmi dietro la finestra.