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C’è un grande incendio, il paese ne è tutto illuminato.

Vedo gente correre tra le fiamme, altri che ne escono e si buttano fra la neve. Entra da noi il tenente Pendoli: –

Non è un attacco, – grida; – non sono i partigiani –. I fuochi accesi dai soldati per scaldarsi hanno provocato l’incendio della chiesa e le munizioni che erano nella chiesa stanno scoppiando. La spiegazione riporta la calma e ritorniamo a sdraiarci sul grano.

Attraverso la finestra senza piú vetri entra un terribile freddo e si vede la neve tutta rossa come inzuppata di sangue.

Che giorno sarà oggi? Vedo che c’è un bel sole e che il cielo è rosa. Sembra una di quelle giornate di marzo che preannunziano la primavera. Giornate piene di speranza. Ci fermiamo, c’è una breve sosta. Con Tourn, Antonelli e Chizzarri canto in piemontese: «All’ombra di un cespuglio, bella pastora che dormiva». Cantiamo tranquillamente e con convinzione, e non siamo pazzi.

Cammina, cammina, ogni passo che facciamo è uno di meno che dovremo fare per arrivare a baita. Attraversiamo un villaggio piú grande dei soliti e con qualche casa in muratura. Si vede che ormai usciamo dalle steppe.

Ci stiamo addentrando nell’Ucraina.

Ogni tanto un soldato corre in una casa e ne torna fuori con un favo di miele biondo. Un soldato del mio plotone ha portato a Cenci un secchio pieno di latte e miele. Cenci beve avidamente. Si direbbe che la bevanda, appena penetrata nello stomaco si tramuti subito in sangue. Ne bevo anch’io. La strada è fiancheggiata di isbe, per chilometri. Ma la maggior parte delle isbe sono chiuse, in quelle aperte non si trova niente. In lontananza risuonano spari. Possono essere partigiani, e affretto il passo lungo la colonna per raggiungere la mia compagnia. Mentre passo vengo insultato e un ufficiale di artiglieria dice: – Sempre cosí questi sbandati.

Sempre i primi ad arraffare e sempre gli ultimi dove c’è da combattere –. Egli mi dà una spinta. – Sono del Vestone, – io gli dico, – sto cercando il mio plotone. Mi chiamo Rigoni. – Rigoni tu? – dice l’ufficiale e ride. È un sottotenente del gruppo Vicenza che mi ha conosciuto in Albania.

La colonna si è fermata. Il maggiore Bracchi e altri ufficiali che sono in testa vengono investiti da una raffica di mitra. Un ufficiale di artiglieria è ferito a un piede.

Bracchi mi grida di portare avanti la pesante. Da un cortile spariamo ai russi che passano di corsa davanti a noi.

Di fianco alla mia pesante è piazzata una vecchia Fiat azionata dagli artiglieri. Sparano bene anche loro. Nel cortile vi sono molti ufficiali superiori che ci osservano.

Mi sembra di essere agli esami di caporale e divento rosso quando l’arma, sprofondando nella neve, mi sposta il tiro e spara troppo corto.

I russi scendono in una balca e si dileguano. Nell’isba vicina è sdraiato sul tavolo il tenente ferito. Lo trovo che scherza con gli altri ufficiali. Vi è anche il generale. Una donna russa porta caffè a tutti e ne dà una tazzina anche a me. Pure la raffica di mitra dev’essere partita da questa stessa casa.

Il grosso della colonna si ferma nel villaggio e noi del Vestone con una batteria alpina, proseguiamo verso un altro villaggio situato a destra sopra una mugila. Vi arriviamo che è notte. Vi entriamo con precauzione, a squadre distanziate, e prendiamo posto nelle isbe. Siamo comodi, un plotone per isba; e il mio, da cinquanta uomini, è ridotto a meno di venti. Troviamo patate, miele, galline, ci prepariamo la cena spensieratamente.

Avremo una buona serata, a quel che sembra, e potremo anche fare una buona dormita.

Rino è in un’isba vicino alla mia, con altri paesani, Renzo, Adriano, Guzzo. Il loro reparto è stato aggregato al mio battaglione in sostituzione di una compagnia rimasta prigioniera. Tornando dalla visita che faccio loro trovo la cena quasi finita e la paglia già stesa per il riposo. Un giovane russo dai lineamenti del viso delicati e nobili si dà attorno per aiutarci; porta dentro legna da ardere, porta fuori tavole e panche per far posto, prepara ciotole e cucchiai. Cammina sciancato e curvo, con le mani che quasi toccano terra e ride continuamente.

Mentre l’osservo mi si avvicina Giuanin a dirmi sottovoce: – Sergentmagiú, qui fuori c’è la paglia piena di armi

–. Esco a vedere. È proprio vero. Sotto un pagliaio vicino allíisba trovo fucili automatici e bombe. Quando rientriamo il giovane sciancato è scomparso. I miei compagni dicono che dev’essere un partigiano in gamba.

Viene il 26 gennaio 1943, questo giorno di cui si è già tanto parlato. È l’aurora. Il sole che sta sorgendo dal basso orizzonte ci manda i suoi primi raggi. Il biancore della neve e il sole abbagliano gli occhi. Abbiamo con noi dei panzer tedeschi.

Una slitta fugge veloce in lontananza, da un carro tedesco partono alcuni colpi e la slitta salta in aria. Ci fermiamo piú avanti ad aspettare il grosso della colonna.

Affacciandoci ad una dorsale vediamo giú un grosso villaggio che sembra una città: Nikolajewka. Ci dicono che al di là c’è la ferrovia con un treno pronto per noi. Saremo fuori dalla sacca se raggiungiamo la ferrovia. Guardiamo giú e sentiamo che questa volta è veramente cosí.

Intanto il grosso della colonna si avvicina a noi. Nel cielo appaiono tre enormi aeroplani, anzi quattro, e si abbassano a mitragliare i nostri compagni. Vediamo le fiammelle che escono da tutte le armi di bordo e la colonna che si sbanda e si sparpaglia. Gli aeroplani risalgono la colonna e poi s’allontanano e ritornano ancora a mitragliare e vanno in giú verso la coda che come una linea nera si perde nella steppa.

Dicono, e continuano a dire, che a Nikolajewka vi siano state tre divisioni di russi. Ma, a giudicare da come le cose si svolsero, io credo di no. Il Vestone, il Valchiese, l’Edolo, il Tirano devono andare all’attacco. La nostra artiglieria s’è piazzata. Il colonnello e il generale consultano le carte e quindi chiamano a rapporto i comandanti di battaglione. Noi del Vestone dobbiamo attaccare a destra. Il luogo di ritrovo è la piazza davanti alla chiesa.

Preparazione di artiglieria non se ne può fare perché vi sono poche munizioni. I bravi artiglieri sono desolati.

Ritrovo Rino. Lo saluto come se si fosse sulla piazza del nostro paese. – A stasera, – gli dico. Saluto gli altri paesani: – In gamba ragazzi, – dico loro. – E conservate sempre la calma.

Con Cenci e Moscioni fumo l’ultima sigaretta. Il capitano ci osserva uno per uno. Infine ci muoviamo. Il mio plotone è l’ultimo a destra. Il capitano è tra il mio e il plotone di Cenci. Poi vengono gli altri. Come usciamo allo scoperto siamo subito accolti da colpi anticarro e da colpi di mortaio.

I miei uomini esitano, si tengono indietro, vi è già qualche ferito e grido: – Avanti, avanti, venite avanti –.

Anch’io esito un poco, ma ormai ci siamo dentro e sarà quel che sarà. Il capitano grida: – Avanti, avanti! – I miei compagni cominciano a seguirmi, e Antonelli e qualche altro mi sorpassano. Ho con me la pesante, ma non abbiamo munizioni.

Dovrebbe portarne giú la squadra di Moreschi. Ma Moreschi ha un po’ paura e i suoi uomini sono come lui. Lo chiamo: – Venite giú; venite avanti, ormai è tutto lo stesso –. I colpi arrivano attorno a noi sprofondando nella neve. Si continua ad avanzare. Il capitano impugna un mitra russo e indicando il paese grida: – Avanti! avanti!

In questo momento penso con accoramento a Rino, e guardo dove sta scendendo il suo reparto. Ora sparano anche con le mitragliatrici; le pallottole si infilano miagolando nella neve accompagnandoci passo per passo.

Qualcuno tra noi è colpito e si abbatte gemendo nella neve. Ma non si può nemmeno fermarsi a vedere chi è.

Grido di sparpagliarci. Ma è inutile perché quando il pericolo è maggiore viene naturale il contrario. Il capitano mi grida di portarmi piú a destra e in alto. C’è una leggera depressione da superare. Cosí formiamo un bersaglio nitidissimo, con il sole in faccia e d’infilata alle mitragliatrici. Vedo Cenci accasciarsi sulla neve e sento che dice forte: – Mi hanno ferito a tutte e due le gambe –.