Due alpini del suo plotone lo riportano indietro. Dovranno risalire allo scoperto fin dove è la colonna. Chissà se arriveranno vivi. Ma aveva la pelle dura Cenci, e l’ho ritrovato sei mesi dopo in Italia.
Il caporalmaggiore Artico prende subito il comando del plotone e davanti a tutti grida: – Secondo e terzo plotone avanti! – Un’arma automatica mi ha preso di mira, spara raffiche brevi e precise: «Ecco, – penso trattenendo il fiato, – adesso muoio». E trattengo il fiato: adesso muoio. Mi allungo in un piccolo avvallamento nella neve e le pallottole battono lí attorno sollevando spruzzi. La saliva mi si impasta in bocca. Non so che cosa penso o che cosa faccio, guardo gli spruzzi di neve a un palmo dalla mia testa. Antonelli e qualche altro mi sorpassano a dieci metri, allora mi alzo e vado ancora avanti.
Guardando a sinistra vedo il reparto del genio muovere all’assalto di un cannone anticarro che sparava su di noi. Dopo un lancio di bombe a mano e una breve mischia il cannone è preso. Quei genieri hanno lo slancio dei primi combattimenti. Sarà perché non ne hanno avuti prima. Io invece mi sento tanto vecchio di guerra al loro confronto.
Ci avviciniamo alla scarpata della ferrovia dietro a cui sono trincerati i russi. Col mio plotone stringo verso il centro. Trovo il sergente Minelli del plotone di Moscioni; perde sangue da varie ferite leggere alla testa e alle braccia; ma ha le gambe fracassate da un colpo anticarro. Si lamenta e piange: – El me s’cet, – dice, – el me s’cet-. Gli faccio coraggio come posso. – Non sei grave,
– gli dico. – Animo Minelli, dietro vi sono i portaferiti, ti verranno a prendere –. So che mentisco, chissà dove diavolo saranno i portaferiti. Forse lassú a vedere come andrà. Ma Minelli mi crede. Mi saluta, mi sorride anche tra le lacrime. Io vorrei fermarmi con lui ma non posso, i miei uomini mi aspettano alla scarpata e Antonelli mi chiama. Minelli riprende a dire: – Il mio bambino, il mio bambino –. E piange.
Spariamo dall’orlo della scarpata; Moscioni ha imbracciato il mitragliatore e spara; spariamo anche con la pesante a dei russi che si ritirano. Ora, qui dietro, possiamo un po’ tirare il fiato; ma siamo in pochi. Guardando per dove siamo scesi si vedono tante macchie nere sulla neve. Ma so anche che nella mia compagnia ve ne sono che si son finti morti per non venire all’assalto. Ora bisogna uscire dal nostro riparo. Inastiamo la baionetta.
Il capitano controlla il funzionamento del suo mitra russo, soffia nella canna e poi mi guarda: – Corajo paese, – mi dice, – la xe l’ultima –. Ci dà gli ordini: – Tu, Rigoni, vai con i tuoi uomini per quella strada. Tu, – dice poi a Moscioni, – vai in un primo tempo con Rigoni e poi gira a sinistra all’altezza di quell’isba. Pendoli, con il plotone comando, e Artico con il secondo e il terzo vengono con me. Andiamo –. Scavalchiamo la ferrovia, siamo accolti da qualche raffica ma ci buttiamo giú per l’altro versante. Io non incontro molta resistenza, il capitano coi suoi due plotoni ne incontra di piú ma poi cedono anche quelli. Alla mia destra noto dei russi vestiti di bianco ma non me ne curo e continuo ad andare avanti. Ora spara anche la nostra artiglieria; vedo russi che corrono attraverso la piazza del paese.
In una delle prime isbe lascio i feriti. Vi è una donna russa e la prego di averne cura. Inoltre lascio con loro, ad assisterli, Dotti della squadra di Moreschi. Con Antonelli e la pesante entro in un’altra isba. Mi sembra un posto ottimo per piazzarvi l’arma. Un soldato del mio plotone mi segue con una cassetta di munizioni. Sfondo una finestra con il calcio del fucile e trascino lí il tavolo coperto da una tovaglia ricamata. Sopra il tavolo postiamo l’arma e spariamo dalla finestra. I russi sono a un centinaio di metri, di schiena. Li cogliamo di sorpresa, ma dobbiamo fare economia di munizioni. Mentre spariamo i ragazzini dell’isba si stringono piangendo alle gonne della mamma. La donna, invece, è calma e seria.
Ci guarda silenziosa.
Durante una pausa vedo spuntare di sotto a un letto gli stivali di un uomo. Sollevo la coperta e lo faccio venir fuori. È un vecchio alto e magro che si guarda attorno spaurito come una volpe nella tagliola. Antonelli ride e poi fa il gesto di dargli un calcio nel sedere e lo manda dov’è la donna coi bambini.
Spariamo qualche raffica a un gruppo di russi che stanno trascinando un cannone anticarro. Non ci restano piú che tre caricatori.
Usciamo dall’isba e incontriamo Menegolo che veniva in cerca di noi con una cassetta di munizioni. Mi irrito perché non vedo comparire Moreschi con le altre cassette. Antonelli e Menegolo postano l’arma all’angolo di un’isba; io un po’ piú avanti, alla loro destra, indico dove devono sparare e sparo con il moschetto attraverso le fessure di uno steccato. Siamo sempre quasi alle spalle dei russi e rechiamo loro molto fastidio. Spero intanto che la colonna si decida a scendere da dove l’abbiamo lasciata ferma. Dopo un po’ che spariamo i russi riescono a individuarci e un colpo d’anticarro porta via l’angolo dellíisba pochi centimetri sopra alla testa di Antonelli. – Spostiamoci, – gli grido. Ma Antonelli si mette a cavallo del treppiede e dice: – Adesso li ho proprio di mira –. E spara ancora.
Il tenente Danda con qualche soldato della cinquantaquattro (credo) vuole attraversare la strada e venire dove siamo noi, ma da una casa vicina partono dei colpi e rimane ferito a un braccio.
La nostra artiglieria non spara piú da un pezzo. Avevano pochi colpi, li avranno sparati tutti. Ma perché non scende il grosso della colonna? Che cosa aspettano? Da soli non possiamo andare avanti e siamo già arrivati a metà del paese. Potrebbero scendere quasi indisturbati ora che abbiamo fatto ripiegare i russi e li stiamo tenendo a bada. Invece c’è uno strano silenzio. Non sappiamo piú niente nemmeno degli altri plotoni venuti all’attacco con noi.
Compresi gli uomini del tenente Danda saremo in tutto una ventina. Che facciamo qui da soli? Non abbiamo quasi piú munizioni. Abbiamo perso il collegamento con il capitano. Non abbiamo ordini. Se avessimo almeno munizioni! Ma sento anche che ho fame, e il sole sta per tramontare. Attraverso lo steccato e una pallottola mi sibila vicino. I russi ci tengono d’occhio. Corro e busso alla porta di un’isba. Entro.
Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. – Mniè khocetsia iestj, – dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste piú. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. –
Spaziba, – dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. – Pasausta, – mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell’ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra, è venuta con me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco.
Cosí è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto piú del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere.