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Tornato tra i miei compagni appendiamo il favo di miele al ramo di un albero e un pezzo per uno ce lo mangiamo tutto. Io poi mi guardo attorno come risvegliandomi da un sogno. Il sole scompare all’orizzonte. Guardo l’arma e i due caricatori che ci sono rimasti.

Guardo per le strade deserte del paese, e mi accorgo che da una di esse avanza verso di noi un gruppo di armati.

Sono vestiti di bianco e procedono con sicurezza. Sono nostri? Sono tedeschi? Sono russi? Giunti a qualche decina di metri da noi si fermano e ci guardano. Sono incerti anche loro. Poi sentiamo che parlano. Sono russi.

Ordino in fretta di seguirmi e mi butto tra le isbe e gli orti. Antonelli e Menegolo mi vengono dietro con l’arma. Tutti mi guardano perplessi come se aspettassero di vedermi compiere un miracolo. Mi rendo conto che la situazione è disperata. Ma non ci passa per la testa di darci prigionieri. Un alpino, di non so quale compagnia, ha un fucile mitragliatore ma non munizioni; un altro mi si avvicina e dice: – Ho piú di cento colpi –. Sporgendomi di sopra a uno steccato sparo un paio di caricatori con il mitragliatore a un gruppo di russi poco lontani e poi passo l’arma a un alpino: – Spara, – gli dico. Da sopra lo steccato l’alpino spara ma poi mi cade rantolando ai piedi, colpito alla testa. Riprendo a sparare con il mitragliatore e i russi si diradano. I cento colpi sono già finiti. Anche Antonelli ha finito le munizioni e ora smonta la pesante e ne disperde i pezzi nella neve. La nostra compagnia perde cosí la sua ultima arma.

Siamo meno di una ventina di uomini. – Animo, – dico, – preparate tutte le bombe a mano che avete, gridate, fate baccano e poi seguitemi –. Sbuchiamo fuori dallo steccato. Siamo in quattro gatti ma facciamo baccano per tre volte tanto e le bombe fanno il resto. Non so se siamo stati noi ad aprirci la strada o se i russi ci abbiano lasciato passare; il fatto è che ci siamo messi in salvo.

Raggiungiamo di corsa la scarpata della ferrovia, e ci infiliamo in un condotto che l’attraversa, ma come metto fuori la testa dall’altra parte vedo che lí davanti la neve è coperta di cadaveri. Una raffica mi passa rasente al muso. – Indietro, – grido, – indietro! – Ritorniamo fuori l’uno dopo l’altro da dove siamo entrati. Mi getto in una piccola balca e sempre correndo ne risalgo il fondo. I miei compagni mi seguono. Costeggio una siepe e sento arrivare dei colpi alle nostre spalle. Giungiamo alle isbe di dove, al mattino, tiravano su di noi con gli anticarro.

Ci fermiamo un attimo a riprender fiato e a guardarci.

Ci siamo ancora tutti. Dall’isba piú vicina vedo uscire il tenente Pendoli. – Rigoni, – mi chiama, – Rigoni, venite qui a prendere il nostro capitano che è ferito. – Ma gli altri, – chiedo, – dove sono? – Non c’è piú nessuno, – risponde il tenente Pendoli. – Andiamo a prendere il capitano, – dico ai miei compagni. Ma dalle isbe attorno, e dalle siepi, dagli orti, vengono fuori sparando decine e decine di soldati russi. Molti dei miei compagni cadono, altri corrono verso la breve scarpata della ferrovia, raggiungono le rotaie e lí ricevono un’altra raffica come una grandinata. Ne cadono ancora due o tre. Io mi precipito per unirmi ai rimasti. Le pallottole battono sulle rotaie con rumore di tempesta e mandano scintille, ma riesco a rotolare dall’altra parte. Sono ultimo dietro agli scampati che si arrampicano nella neve. La scarpata della ferrovia ci divide dai russi. Passo vicino a un cannone anticarro e mi fermo per cercare di toglierne l’otturatore e renderlo inservibile. Ma intanto, i russi riappaiono sulla scarpata e mi sparano contro. Allora riprendo a correre in su come posso, sprofondando di continuo nella neve sino al ginocchio. Sono allo scoperto sotto il fuoco dei russi e a ogni passo che faccio arriva un colpo. «Adesso e nell’ora della nostra morte», dico tra di me, come un disco che giri a vuoto. «Adesso e nell’ora della nostra morte. Adesso e nell’ora della nostra morte».

Sento qualcuno che geme e invoca aiuto. Mi avvicino.

È un alpino che era al mio caposaldo sul Don. È ferito alle gambe e al ventre da schegge d’anticarro. Lo circondo con le braccia sotto le ascelle e lo trascino. Ma faccio troppa fatica e me lo carico sulle spalle. I russi ci sparano contro con l’anticarro. Sprofondo nella neve, avanzo, cado, e l’alpino geme. Non ho proprio la forza di continuare a portarlo. Riesco tuttavia a portarlo dove i colpi non arrivano. Del resto i russi smettono di sparare. Dico all’alpino di provarsi a camminare. Egli tenta inutilmente, e ci fermiamo dietro a un mucchio di letame. – Resta qui, gli dico. – Ti mando a prendere con la slitta. E fatti coraggio perché non sei grave.

Io poi, non mi sono ricordato di mandare giú la slitta, ma i portaferiti della nostra compagnia sono giusto passati di là e lo hanno raccolto. Ho saputo in Italia ch’egli si era salvato, e un gran peso mi è caduto dal cuore. Lo ritrovai un giorno, finito tutto, a Brescia. Non lo riconobbi, ma lui mi vide da lontano, mi corse incontro, mi abbracciò. – Non ricordi sergentmagiú? – Io non lo riconoscevo e lo guardavo. – Non ricordi? – ripeteva, e si batteva con la mano sulla gamba di legno. – Va tutto bene ora –. E rideva. – Non ricordi il 26 gennaio? – Allora mi ricordai e tornammo ad abbracciarci con tanta gente attorno che ci osservava senza capire.

Ora, mentre continuavo da solo il mio cammino nella neve, sento d’un tratto un trambusto e vedo la massa nera della colonna precipitarsi giú per il pendío. Che diavolo fanno? Penso che il fuoco dei russi li sterminerà.

Perché non sono venuti giú prima? Ma vi sono di nuovo degli aeroplani. Mitragliano e lanciano spezzoni. È di nuovo come stamattina. In piú dal paese sparano con gli anticarro e i mortai. Alcuni panzer tedeschi scendono lentamente, guardinghi. Uno è colpito e si ferma, ma continua a sparare con il cannone. Gli altri mi passano vicino. Gruppi di soldati tedeschi li seguono e io mi unisco a loro. Cosí arrivo ancora una volta alle prime case.

Spariamo coi fucili di dietro ai carri. Spiegandomi a cenni cerco di far avanzare un panzer fin dove si trova il capitano ferito. Do loro a intendere che si tratta di un ufficiale superiore. Dopo molte esitazioni i tedeschi cedono alle mie insistenze. Facciamo pochi metri nella direzione che indico loro, e un colpo di anticarro frantuma il periscopio. Il panzer è costretto a fermarsi e dobbiamo rinunciare. Non siamo in numero sufficiente per addentrarci nel paese senza l’appoggio del carro.

Intanto è cominciata la sera. Mi metto dietro alle macerie di una casa sparando contro i russi che passano per gli orti. Sono rimasto solo. Venti metri piú a destra vi è un soldato tedesco che si avvicina, strisciando cauto sulla neve, a due russi appostati dietro un muricciolo. Egli poi lancia due granate su di loro. Io allora corro fino a una casa piú avanti. Dal marciapiede in faccia un soldato russo mi vede e svolta la cantonata per poi prendermi di mira. Io dal mio riparo e lui dal suo ci scambiamo dei colpi di fucile. Un capitano dell’artiglieria alpina che mi viene incontro cade colpito al petto mentre sta per rivolgermi la parola. Ha uno sbocco di sangue che mi chiazza le scarpe e i calzettoni. Arriva il suo attendente. Arriva un altro ufficiale. Piangono su di lui che rantola. Appena poi è morto l’attendente gli toglie dalla tasca il portafogli e dal polso l’orologio. Io non ne posso piú dalla stanchezza e vado a sedermi dietro un piccolo argine.