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Un sottotenente mi si avvicina gridando: – Vigliacco, che fai lí? Vieni fuori –. Io non lo guardo nemmeno, e lui finisce che si mette a sedere lí vicino e se ne resta lí anche dopo che io me ne vado.

Vengo a sapere che il tenente colonnello Calbo dell’artiglieria alpina è stato colpito. Lo cerco. Il suo attendente gli sorregge il capo e piange. Il colonnello ha gli occhi velati e già forse non vede piú nulla. Mi parla credendomi il maggiore Bracchi. Non ricordo le parole che mi disse; ricordo solo il suono della sua voce, l’affanno cagionato dalla ferita e lui sulla neve. Qualcosa di grande era nel suo aspetto e io mi sentivo timido e stupito. Intanto i carri dei tedeschi sono tornati ad avanzare.

Alpini e tedeschi si mettono dietro. Le pallottole battono sulla corazza dei panzer e schizzano attorno a noi. Su un carro è accovacciato il generale Reverberi che ci incita con la voce. Poi egli scende e cammina da solo davanti ai carri impugnando la pistola.

Da una casa sparano con insistenza. Da quella sola casa. – Ci sono ufficiali? – grida il generale verso di noi.

Ufficiali forse ve ne sono, ma nessuno esce. – Ci sono alpini? – grida ancora. E allora esce un gruppetto di dietro ai carri. – Andate in quella casa e fatela finita, – ci dice. Noi andiamo e i russi se ne vanno.

é notte fatta, la colonna si è riversata nel paese e tutti cercano un posto per passare la notte al caldo, e, se è possibile, mangiare qualcosa. Che confusione ora! Sembra una fiera. Incontro alcuni genieri e chiedo loro di Rino. Lo hanno visto ferito leggermente ad una spalla durante il primo assalto, da allora non sanno piú nulla.

Lo chiamo e lo cerco senza trovarlo. Incontro il capitano Marcolini e il tenente Zanotelli del mio battaglione.

Con questi mi metto vicino alla chiesa e chiamiamo: –

Vestone! Vestone! Adunata Vestone! – Ma potrebbero rispondere i morti? – Si ricorda Rigoni, il primo di settembre? – mi dice piangendo il tenente. – È come allora.

– È peggio, – dico.

Ai nostri richiami risponde Baroni dei mortai e viene con un gruppetto del suo plotone. Hanno ancora un tubo di mortaio, nessuna bomba, nient’altro. Di tutto il Vestone riusciamo a radunarci in circa una trentina. Le isbe sono tutte occupate e prendiamo posto nelle scuole. Ma qui i vetri sono rotti, non c’è paglia e l’impiantito è di cemento. Ci sdraiamo ma non è possibile dormire. Ci congeleremmo. «La Ecia», alpino della mia compagnia, ha trovato chissà dove delle gallette e me ne dà una. Rosicchiamo assieme. Bodei, che mi è vicino, trema dal freddo. Ci alziamo e usciamo. Busso a un’isba; viene alla porta un soldato tedesco con la pistola spianata e me la punta al petto. – Voglio entrare, – dico. Gentilmente, con la mano, gli sposto la pistola e gli rido in faccia. Sconcertato la rimette nel fodero e mi chiude la porta sul viso. Entriamo in una stalla e accendiamo un piccolo fuoco con degli sterpi. Ci riscaldiamo, ma la parte che non guarda il fuoco è gelata.

I muli ci guardano con le orecchie basse. La testa ci ciondola di qua e di là. Lentamente mi addormento con la schiena appoggiata a un palo.

Questo è stato il 26 gennaio 1943. I miei piú cari amici mi hanno lasciato in quel giorno.

Di Rino, rimasto ferito durante il primo attacco, non sono riuscito a sapere nulla di preciso. Sua madre è viva solo per aspettarlo. La vedo tutti i giorni quando passo davanti alla sua porta. I suoi occhi si sono consumati.

Ogni volta che mi vede, quasi piange per salutarmi e io non ho il coraggio di parlarle. Anche Raul mi ha lasciato quel giorno. Raul, il primo amico della vita militare.

Era su un carro armato e nel saltar giú per andare ancora avanti, verso baita ancora un poco, prese una raffica e morí sulla neve. Raul, che alla sera prima di dormire cantava sempre: «Buona notte mio amore». E che una volta, al corso sciatori, mi fece quasi piangere leggendomi Il lamento della Madonna di Jacopone da Todi. E anche Giuanin è morto. Ecco Giuanin, ci sei arrivato a baita. Ci arriveremo tutti. Giuanin è morto portandomi le munizioni per la pesante quando ero giú al paese e sparavo. È morto sulla neve anche lui che nel ricovero stava sempre nella nicchia vicino alla stufa e aveva sempre freddo. Anche il cappellano del battaglione è morto: «Buon Natale, ragazzi, e pace». È morto per andar a prendere un ferito mentre sparavano. «State sereni e scrivete a casa». «Buon Natale, cappellano». E anche il capitano è morto. Il contrabbandiere di Valstagna.

Aveva il petto passato da parte a parte. I conducenti, quella sera, lo misero su una slitta e lo portarono fuori della sacca. Morí all’ospedale di Carkof. Sono andato a casa sua, quando ritornai in primavera. Ho camminato attraverso i boschi e le valli: «Pronto? Qui Valstagna, parla Beppo. Come va paese?» E la sua casa era vecchia e rustica e pulita come la tana del tenente Cenci. E soldati del mio plotone e del mio caposaldo, quanti ne sono morti quel giorno? Dobbiamo restare sempre uniti, ragazzi, anche ora. Il tenente Moscioni si ebbe bucata una spalla e poi in Italia la ferita non poteva chiudersi.

Ora è guarito della ferita ma non delle altre cose. Oh no, non si può guarire. E anche il generale Martinat è morto quel giorno. Lo ricordo quando in Albania lo accompagnavo per le nostre linee. Io camminavo in fretta davanti a lui perché conoscevo la strada e mi guardavo indietro per vedere se mi seguiva. «Cammina, cammina pure in fretta caporale, ho le gambe buone io». E anche il colonnello Calbo che era cosí bravo con i suoi artiglieri della diciannove e della venti. E anche il sergente Minelli era ferito lí nella neve: – El me s’cet, – diceva e piangeva, – el me s’cet –. Giuanin, troppo pochi siamo arrivati a baita, dopo tutto. Nemmeno Moreschi è ritornato. «Possibile una capra di sette quintali? Porca la mula sempre Macedonia». E neanche Pintossi, il vecchio cacciatore, è arrivato a baita a cacciare i cotorni. E sarà morto pure il suo vecchio cane, ora. E tanti e tanti altri dormono nei campi di grano e di papaveri e tra le erbe fiorite della steppa assieme ai vecchi delle leggende di Gogol e di Gorky. E quei pochi che siamo rimasti dove siamo ora?

Quando mi svegliai trovai che le scarpe mi si erano bruciate ai piedi. Sentii un rumore di gente che si preparava a partire. Non trovai piú nessuno della mia compagnia né del battaglione. Nel buio persi anche Bodei e rimasi solo. Cercavo di camminare piú in fretta possibile perché i russi potevano ritentare di agganciarci. Era ancora notte e c’era un gran trambusto per il paese. Feriti gemevano sulla neve e nelle isbe. Ma io, ormai, non pensavo piú a niente; neanche alla baita. Ero arido come un sasso e come un sasso venivo rotolato dal torrente. Non mi curavo di cercare i miei compagni e, dopo, nemmeno di camminare in fretta. Proprio come un sasso rotolato dal torrente. Piú niente mi faceva impressione; piú niente mi commoveva. Se fosse accaduto di combattere ancora sarei andato avanti, ma per conto mio; senza curarmi di quelli che mi avrebbero seguito o sorpassato.

Avrei fatta la battaglia per mio conto; personalmente; isolato; da isba a isba, da orto a orto; senza ascoltare comandi, senza darne, libero di tutto, come per una caccia in montagna; da solo.

Avevo ancora dodici colpi per il moschetto e tre bombe a mano. Ve n’erano pochi, forse, in tutta la colonna che avevano tante munizioni quante ne avevo io.

Un’altra giornata di cammino sulla neve. Le scarpe bruciate vanno in pezzi e me le saldo attorno ai piedi con del filo di ferro e stracci. Camminando il cuoio secco mi ha rotto la pelle sotto il malleolo e ha formato una piaga viva. Le ginocchia mi dolgono; a ogni passo che muovo fanno cric crac. Mi viene anche la dissenteria.

Cammino senza dire una parola con nessuno per chilometri e chilometri.

Ora la colonna procede a monconi. I piú validi camminano in fretta, gli altri come possono. Io non sono tra questi, ma neanche tra i piú validi, ormai. Vado per conto mio.

Un altro giorno di cammino sulla neve. Lungo la pista sono abbandonati i cannoni dell’artiglieria alpina. È giusto; è inutile portarli, è giusto che i muli siano adoperati per i feriti. Capita ogni tanto di sentire delle brevi discussioni tra artiglieri alpini e tedeschi. Dei tedeschi, chissà come, erano riusciti a impossessarsi dei nostri muli che ora certamente valevano piú delle loro macchine. Soltanto noi avevamo muli. Ma gli alpini e gli artiglieri discutono poco; fermano i muli e fanno scendere i tedeschi. Si riprendono le brave bestie e vanno via. Hanno i loro paesani feriti da caricarci sopra. Di fronte alla pacatezza degli alpini l’ira dei tedeschi era ridicola.