Era molto lunga quel giorno la marcia. Non si vedeva nessun paese da nessun lato e bisognava camminare. Si mangiavano manciate di neve. Venne la notte. Ancora non ci si fermava né si vedeva un paese. Finalmente, lontano, una luce, e non pareva mai di arrivarci. Lo potete immaginare, voi, quanto era lontana quella luce e quanta neve bisognava calpestare per arrivarci? Fu interminabile nella notte. Era un villaggio. Non so dove andai a dormire né con chi; né se mangiai. Alla mattina quando ripartii c’era il sole. La maggior parte erano già andati; ero con gli ultimi; le isbe erano vuote e i fuochi si spegnevano. Ricordo che entrai in un’isba; per terra c’erano delle bucce di patate arrostite tra la cenere e le mangiai.
Ero sempre solo.
Una sera incontrai in un’isba dei soldati del mio battaglione. Mi riconobbero. Uno era congelato alle gambe. Alla mattina quando ripartimmo aveva le gambe nere per la cancrena e piangeva. Non poteva piú venire con noi né si trovò una slitta per caricarlo. Lo raccomandai alle donne dell’isba. Piangeva e anche le donne piangevano. – Addio Rigoni, – mi disse. – Ciao sergentmagiú.
Io sono sempre solo. Un giorno trovo sulla neve una tavoletta gialla; la raccolgo e mangio. Sputo subito.
Chissà che diavolo è. Lo sputo è giallo. Ha un gusto tremendo. Sputo e sputo giallo, mangio neve e sputo giallo, dove cade lo sputo la neve attorno si fa gialla. Per tutto il giorno ho sputato giallo e per tutto il giorno ho avuto quel sapore in bocca. Chissà che diavolo era quella roba; forse anticongelante per i motori o esplosivo. Ma sono solo e non m’importa del mio sputo giallo sulla neve né della dissenteria.
Una notte mi fermo a dormire con alcuni ufficiali del Valchiese. Entro nell’isba, parlo bresciano e dico che sono del loro battaglione. Mi accettano nella loro compagnia. Accendo il fuoco nel forno e un soldato porta dentro una capra. L’ammazzo e la faccio a pezzi per arrostirla nel forno. Troviamo anche un po’ di sale. Faccio le razioni e mangiamo tutti lí dentro, saremo una quindicina. Gli altri a vedermi cosí intraprendente e pratico mi prendono in simpatia. Ma faccio tutto come un automa. Trovo anche della paglia e dopo aver mangiato la capra ci addormentiamo al caldo. Alla mattina mi sveglio per primo ed è ancora buio. – Sveglia, – dico,
– dobbiamo partire se no rimaniamo gli ultimi –. Ma non si vogliono alzare, vogliono dormire ancora. Esco solo e cammino nella colonna che si è già avviata.
Un pomeriggio si arriva in un villaggio, la colonna è avanti: sono tra gli ultimi. Da una mugila vedo la colonna che avanza a zigzag per la steppa e poi degli aeroplani che sorvolano e mitragliano. Nel villaggio vi sono gruppetti di due tre persone che vanno per le isbe in cerca di cibo. Nella piazza vi sono dei colombi. Penso di sparare a uno e poi mangiarlo. Levo dalla spalla il moschetto, abbasso la sicurezza e miro da venti passi. Il colombo s’alza per volare e allora sparo. Quello cade giú fulminato senza battere le ali. Di essere un discreto tiratore lo sapevo, ma non sino al punto di colpire un colombo al salto con fucile a pallottola. Mi stupisco, certo è stato un caso. Mi riprendo un po’ e sorrido di soddisfazione. Un vecchio russo che mi osserva da poco lontano si avvicina ed esprime la sua meraviglia. Scuote la testa incredulo e indica il colombo morto; poi lo prende in mano, osserva il foro della pallottola che lo ha passato da parte a parte e conta i passi da dove ho sparato. Mi dà il colombo e mi stringe la mano. Mi commuovo un poco. È un vecchio cacciatore come lo zio Jeroska.
Entro in un’isba per cucinare il colombo e levo la gavetta che porto infilata nella cinghia delle giberne. Lí vi sono due soldati italiani ma nessun borghese. Piú tardi entrano degli ufficiali giovani e disarmati. Dopo aver mangiato il colombo faccio per riprendere il moschetto che avevo appoggiato al muro ma non lo trovo piú. Il mio vecchio moschetto di tante battaglie, che funzionava cosí bene, che sparava cosí bene e che avevo cosí caro. Chi me lo aveva preso?
Gli ufficiali non c’erano piú, non posso dire che me lo avessero preso loro. Ma lo penso. Rimasi male, veramente male. Ora che si era sfuggiti all’accerchiamento, i disarmati, ed erano i piú, cercavano di prendere le armi a quelli che le avevano tenute fino allora. Non volevo né potevo ritornare dai miei compagni disarmato, avevo buttato l’elmetto, la maschera antigas, lo zaino, bruciate le scarpe, persi i guanti ma il mio vecchio moschetto lí avevo sempre tenuto con me. Avevo ancora i caricatori e le bombe a mano. Nell’isba c’era un fucile pesante e rozzo. Presi quello: le cartucce andavano bene. Quando uscii sentii degli spari vicino al paese e delle grida. Erano partigiani o soldati regolari che attaccavano gli ultimi sbandati della colonna. Per non rimanere prigioniero corsi in fretta, come potevo, tra gli orti e le isbe dietro gli steccati e poi nella steppa finché raggiunsi la colonna.
La piaga del piede s’era fatta purulenta e puzzava, camminando ne sentivo l’odore e la calza s’era attaccata.
Mi faceva male: era come se uno mi avesse piantato i denti nel piede e non mollasse. Le ginocchia scricchiolavano, a ogni passo facevano cric crac, cric crac. Camminavo con passo regolare, ma ero lento e anche sforzandomi non ero capace di tenere un’andatura piú svelta. In un orto avevo preso un bastone e mi appoggiavo a quello.
Un’altra notte mi fermai in un’isba dove c’era un tenente medico servito da una guardia ucraina. (Uno di quei borghesi con la fascia bianca sul braccio che facevano servizio per le truppe di occupazione). L’ucraino preparò la minestra di miglio e latte, e me ne diede un piatto. Era proprio buona. Mi levai gli stracci e le scarpe bucate. Le calze erano attaccate alla piaga e l’odore di marcio era proprio fetido. Attorno alla piaga la carne era bianchiccia, sporca di un umore giallo. Lavai con acqua e sale. Fasciai con un pezzo di tela. Rimisi le calze, i resti delle scarpe, gli stracci e legai con il filo di ferro.
In quel villaggio, la sera prima, avevo incontrato Renzo. – Come va, paesano? – gli chiesi. – Va bene, – rispose, – va bene. Guarda, io sono in quell’isba; domani ripartiremo assieme –. E corse via. Lo rividi in Italia. Ero solo, non cercavo nessuno, volevo restar solo. Nell’isba, poi, venne a bussare un tedesco. Vidi che non era uno dei soliti. Entrò da noi e mangiò con noi. Dopo, seduto sulla panca, levò dal portafogli le fotografie: – Questa è mia moglie, – disse, – e questa è mia figlia –. La moglie era giovane e la figlia era bambina. – E questa è la mia casa, – disse poi. Era una casa della Baviera, tra gli abeti, in un piccolo paese.
Camminai ancora un altro giorno con il passo del vecchio viandante appoggiandomi al bastone. Per delle ore mi sorprendevo a ripetere: «Adesso e nell’ora della nostra morte», e questo pensiero mi ritmava il passo. Lungo la pista s’incontravano spesso delle carogne di mulo.
Un giorno stavo tagliandomi un pezzo di carne da una carogna quando mi sentii chiamare.
Era un caporalmaggiore del battaglione Verona che avevo avuto per allievo a un corso rocciatori nel Piemonte. Mi chiama e vedo che è contento d’incontrarmi.
– Vuoi che camminiamo assieme? – dice. Per me. Andiamo, – dico.
Due o tre giorni camminai con lui. Al corso rocciatori lo chiamavamo Romeo perché una notte era andato a trovare una pastora scalando la finestra. (Era proficuo il corso rocciatori). Romeo e lei Giulietta. Era recluta e lo canzonavamo per questo. Un’altra sera che eravamo in un rifugio tra i ghiacciai scese al paese per trovarla e camminò tutta la notte. La mattina dopo c’era da scalare una vetta ed era stanco ma il tenente Suitner lo caricò bene di corde e di attrezzi. Ora, qui in Russia, avevo sentito dire che era un caporalmaggiore tra i migliori del Verona. Camminando parlavo poco con lui, ma la sera, quando si arrivava nelle isbe, ci aiutavamo scambievolmente per preparare qualcosa da mangiare e la paglia per dormire.