Quando stavo per andarmene mi regalò un pacchetto di Africa e mi diede in prestito un libro che parlava di un aviatore che volava per l’oceano, le Ande, i deserti. Mi accompagnò per le postazioni del suo caposaldo; guardando il campo di tiro dei suoi mitragliatori gli feci osservare che doveva sparare un po’ piú alto e a sinistra perché le pallottole passavano sopra la nostra trincea e noi non potevamo mettere fuori il naso, com’era successo una volta ch’era venuta una pattuglia russa e lui sparava.
Ritornando solo alla mia tana pensavo se avrei trovato posta e che parole nuove dovevo scrivere alla ragazza. Ma le parole nuove erano sempre quelle vecchie: baci, bene, amore, ritornerò. Pensavo che se avessi scritto: gatto per Natale, olio per le armi, turno di vedetta, Beppo, postazioni, tenente Moscioni, caporale Pintossi, reticolati, non avrebbe capito niente.
Tourn, il piemontese, era il piú allegro di tutti anche se aveva un po’ di paura. L’avevano mandato al nostro battaglione per punizione perché era rientrato in ritardo dalla licenza. In principio non si era trovato bene con noi ma poi sí, e molto. Quando rientrava nella tana, dopo il suo turno di vedetta, gridava: – Madamin c’al porta ‘na buta!
Bodei, che era bresciano come tutti gli altri, rispondeva:
– Bianco o negher?
– Basta c’al sia! – riprendeva Tourn e poi cantava nel suo dialetto: – All’ombretta di un cespuglio...
Un giorno gli chiesi: – Tourn, hai ricevuto posta da casa? – Sí, – disse lui, – l’ho già fumata tutta.
Tourn, infatti, raccoglieva tutte le cicche, ne levava il tabacco e con le lettere che riceveva da casa «per via aerea» faceva cartine. Lui cosí fumava sempre e faceva in modo che da casa gli scrivessero sempre «per via aerea» per aver carta sottile.
Giuanin invece, ogni volta che gli capitavo a tiro, mi chiamava in disparte, mi strizzava l’occhio e sottovoce mi chiedeva: – Sergentmagiú, ghe rivarem a baita?
Perché lui era certo che io sapessi come sarebbe andata a finire la guerra, chi sarebbe restato vivo, chi morto e quando. Cosí io rispondevo con sicurezza: – Sí, Giuanin, ghe rivarem a baita –. Secondo lui dovevo anche sapere se avrebbe sposato la sua ragazza. Qualche volta gli dicevo che doveva stare attento agli imboscati.
Si appollaiava nella sua nicchia vicino alla stufa e con gli occhi mi ripeteva: – Sergentmagiú, ghe rivarem a baita? – Pareva che fra noi due vi fosse un segreto.
Un bel tipo era anche Meschini. Era lui che faceva la polenta la sera. Mescolava con energia: le maniche della camicia rimboccate fino al gomito, una goccia di sudore per ogni pelo di barba. Si vedevano i muscoli delle braccia e del viso irrigidirsi, si piantava a gambe larghe.
Cosí mescolava la polenta Meschini. Pareva Vulcano che batteva sull’incudine. Raccontava che quando era in Albania la tormenta faceva bianco il pelo dei muli neri e il fango cambiava in neri i muli bianchi. Quelli che avevano pochi mesi di naia lo stavano ad ascoltare increduli. Era un ex conducente e odorava ancora di mulo: la sua barba era pelo di mulo, la sua forza era di mulo, la guerra la faceva come un mulo, la polenta che mescolava era mangime di mulo. Aveva il colore della terra e noi eravamo come lui.
Anche il tenente Moscioni che comandava il caposaldo era come noi. Riposava lavorando come i muli, scavava camminamenti con noi durante il giorno e veniva con noi di notte a portare reticolati davanti alla trincea, a fare postazioni, a prendere pali tra le macerie delle case e mangiava polenta come mangime di muli.
Ma lui aveva una cosa che noi non avevamo: nello zaino nascondeva pacchetti di sigarette Popolari e Milit che fumava di nascosto nella sua tana; a noi invece passavano Macedonia ed era come fumare foglie di patata.
Moreschi, il caporalmaggiore dei mortai da 45, voleva cambiare Macedonia contro Milit ma il tenente non ci stava nemmeno a due contro una. Però, a dire il vero, Moreschi qualche Milit se la fumava sempre.
La notte di capodanno vi furono i fuochi artificiali.
Diavolo se era freddo! Cassiopea e le Pleiadi brillavano piú che mai sopra le nostre teste, il fiume era gelato completamente e ogni mezz’ora bisognava dare il cambio alle vedette.
Alla sera ero andato con il tenente sino alla postazione del sergente Garrone. Lí si giocavano alle carte i soldi della deca. Fuori la vedetta stava vicino alla mitragliatrice. La pesante sporgeva la canna verso un campo di granone indurito dal gelo: pareva una capra tanto sembrava magra, la pesante, e sotto la pancia aveva un elmetto di brace viva.
La vedetta si grattava; i muli avevano l’erpete e lui la scabbia. Ritornando verso il caposaldo pareva proprio di andare verso casa nostra. Il tenente volle tirare un colpo di pistola per vedere se le vedette stavano all’erta. La pistola fece: clic. Io allora provai a tirare un colpo di moschetto e il moschetto fece: clic. Mi disse infine di gettare una bomba a mano e la bomba a mano non fece nemmeno clic, sparí nella neve senza fare alcun rumore.
Diavolo se era freddo.
Dopo, verso mezzanotte, venne la sagra. D’un tratto pallottole traccianti mandavano a pezzi il cielo, pallottole di mitragliatrice passavano sopra il nostro caposaldo miagolando e davanti le nostre trincee scoppiavano i 152: subito dopo i 75/13 e i mortai da 81 di Baroni laceravano l’aria e i pesci nel fiume. Tremava la terra, e sabbia e neve colavano giú dai camminamenti. Nemmeno nel Bresciano nel giorno della sagra di san Faustino s’udiva un baccano simile. Cassiopea non si vedeva piú e i gatti chissà dov’erano andati. Le pallottole battevano sui reticolati mandando scintille. Improvvisamente tutto ritornò calmo, proprio come dopo la sagra tutto diventa silenzioso e nelle strade deserte rimangono i pezzi di carta che avvolgevano le caramelle e i fiocchi delle trombette. Solo ogni tanto si sentiva qualche fucilata solitaria e qualche breve raffica di mitra come le ultime risate di un ubriaco vagabondo in cerca di osteria. Tornarono a brillare le stelle sopra le nostre teste e i gatti a mettere il muso fuori dalle macerie delle case. Gli alpini rientravano nelle tane. Sul Don, nei buchi delle esplosioni, l’acqua riprendeva a gelare. Ero assieme al tenente e guardavamo le cose nell’oscurità e ascoltavamo il silenzio.
Sentimmo che Chizzarri veniva in cerca di noi. – Signor tenente, vi vogliono al telefono, – disse. Rimasi solo e guardavo i reticolati a metà sepolti nella neve, le erbe secche sulla riva del fiume immobile e duro, e sull’altra riva indovinavo nel buio le postazioni dei russi. Sentii una nostra vedetta tossire e un passo lungo e felpato come quello del lupo: il tenente ritornava. – Cos’era? – dissi. È morto Sarpi, – rispose. Guardai nuovamente il buio e ascoltai di nuovo il silenzio. Il tenente si curvò nella trincea, accese due sigarette e ne passò una a me.
Mi sentivo allo stomaco come un calcio di fucile e la gola chiusa come se avessi da vomitare qualcosa e non potessi. Tenente Sarpi. Attorno a me non c’era nulla, nemmeno le cose, nemmeno Cassiopea, nemmeno il freddo.
Solo quel dolore allo stomaco. – È stata una pattuglia, – disse il tenente; – entrò nel suo caposaldo dalle spalle e penetrò nella trincea. Uscendo di corsa dal suo ricovero alla curva di un camminamento si prese una raffica in petto. Hanno portato via anche un conducente della nostra compagnia che stava spalando la neve dai camminamenti. Andiamo a dormire ora. Buon anno, Rigoni –. Ci stringemmo la mano.
Come tutte le mattine, quando venne l’alba, andai a dormire; come sempre mi sdraiai sulla paglia che una volta era stata il tetto di un’isba, con le scarpe, le giberne, il passamontagna; mi tirai sopra il pastrano con il pelo e guardando i pali del bunker mi addormentai. Come al solito, verso le dieci, Giuanin mi svegliò per spartire il rancio. Era speciale quel giorno: patate in umido, carne, formaggio, vino, e, come sempre, nel percorso dalle cucine al caposaldo s’era gelato. Vedendo il rancio speciale mi ricordai che era capodanno e che nella notte era morto il tenente Sarpi. Uscii fuori dalla tana. Il sole mi fece vedere tutto bianco, poi andando piano per i camminamenti mi portai nella postazione piú avanzata sotto i reticolati. Da lí guardai le peste del battaglione russo che aveva attraversato il fiume a cento metri da noi. Tutto era silenzio. Il sole batteva sulla neve, il tenente Sarpi era morto nella notte con una raffica al petto. Ora maturano gli aranci nel suo giardino, ma lui è morto nel camminamento buio. La sua vecchia riceverà una lettera con gli auguri. Stamattina i suoi alpini lo porteranno giú con la barella verso gli imboscati e lo poseranno nel cimitero, lui siciliano, assieme a bresciani e bergamaschi. Eravate contento, signor tenente, dei mitraglieri; anche se bestemmiavano quando ordinavate di pulire le armi mentre a voi non piaceva sentir bestemmiare. La sera venivate nella nostra tana: prima dicevamo il rosario, poi cantavamo, poi bestemmiavamo. Allora tenente Sarpi ridevate, poi dicevate parolacce in siciliano. Ora a cento metri da qui vi sono sulla neve le tracce della pattuglia.