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Il sole incominciava a farsi sentire, le giornate si erano allungate. Si camminava in una vallata lungo il corso di un fiume. Si sentiva dire che ormai eravamo fuori dalla sacca e che un giorno o l’altro saremmo entrati nelle linee tedesche. Quelli che s’erano attardati alla fine della colonna dicevano che i soldati russi, i carri armati e i partigiani ogni tanto tagliavano la coda e facevano dei prigionieri.

Al passaggio d’una balca, v’erano un giorno delle slitte di feriti bloccate nella neve. Romeo e io si camminava fuori dalla pista per conto nostro. Il conducente e i feriti di una slitta chiedevano aiuto. C’era tanta gente lí attorno ma mi pareva che si rivolgessero proprio a noi. Mi fermai.

Mi guardai un po’ indietro e ripresi a camminare. Dopo, girandomi ancora, vidi che le slitte s’erano mosse. Ero solo; non cercavo nessuno, non volevo niente.

Un giorno passiamo per un villaggio; c’è ancora il sole alto, dalle finestre di un’isba delle donne battono sui vetri e ci fanno cenno di entrare. – Entriamo? – domanda il mio compagno. – Entriamo, – dico. L’isba è bella con tendine ricamate alle finestre e le icone adornate con fiori di carta. Tutto è pulito e caldo. Le donne fanno bollire due galline per noi, ci dànno da bere il brodo e mangiare la carne con patate lessate. Dopo ci preparano da dormire. Verso sera entrarono anche dei sottufficiali dell’Edolo. Chiedo a loro di Raul. Cosí per chiedere, perché vedo dalla nappina che sono del suo battaglione.

– È morto, – mi rispondono, – è morto a Nikolajewka.

Andava all’assalto su un carro armato e saltando a terra si prese una raffica –. Io non dico nulla.

Quando alla mattina devo muovere i primi passi sono costretto a fare piano. Cric crac mi fanno le ginocchia.

Piano piano fino a che si riscaldano e poi continuare il cammino appoggiandomi al bastone. Il mio compagno ha pazienza e viene con me silenzioso. Come due vecchi viandanti che si sono messi insieme senza conoscersi.

Nella colonna si sente sovente imprecare e litigare.

Siamo diventati irascibili, nervosi, per una cosa da nulla si trova da dire.

Un giorno entriamo in una capanna; abbiamo sentito lí dentro cantare un gallo. Vi sono molte galline, ne prendiamo una per ciascuno. Camminando le spenniamo per mangiarle alla sera. Un aeroplano tedesco «Cicogna» è atterrato vicino alla colonna; vengono caricati dei feriti. Tra qualche ora quelli saranno all’ospedale.

Ma non m’importa niente di nulla.

Incontriamo dei soldati tedeschi che non erano con noi nella sacca. Sono di un caposaldo e ci aspettavano.

Sono lindi e ordinati. Un ufficiale di questi osserva all’orizzonte attorno attorno con il binocolo. Siamo fuori, tento di pensare. Ma non provo nessuna emozione nemmeno quando troviamo delle tabelle segnavia scritte in tedesco.

Al lato della pista si è fermato un generale. È Nasci, il comandante del corpo d’armata alpino. Sí, è proprio lui che con la mano alla tesa del cappello ci saluta mentre passiamo. Noi, banda di straccioni. Passiamo davanti a quel vecchio dai baffi grigi. Stracciati, sporchi, barbe lunghe, molti senza scarpe, congelati, feriti. Quel vecchio col cappello d’alpino ci saluta. E mi sembra di rivedere mio nonno.

Sono camion italiani quelli laggiú, sono i nostri Fiat e i nostri Bianchi. Siamo fuori, è finita. Ci sono venuti incontro per caricare i feriti e i congelati o chiunque voglia saltarci sopra. Guardo i camion e passo oltre. La mia piaga puzza, le ginocchia mi dolgono, ma continuo a camminare sulla neve. Delle tabelle indicano: 6¡ alpini; 5¡ alpini; 2¡ artiglieria alpina. Battaglione Verona, e il mio compagno se ne va senza che me ne accorga. Battaglione Tirano, battaglione Edolo, gruppo Valcamonica e la colonna si assottiglia. 6¡ alpini, battaglione Vestone, indica una freccia. Sono del 6¡ alpini io? Del battaglione Vestone? Avanti per di qua allora. Vestone, Vestone, el Vestú. I miei compagni.

«Sergentmagiú ghe rivarem a baita?» Sono a baita. Adesso e nell’ora della nostra morte. – Vecio! Ciao Vecio! – Ma chi è quello? Sí, è Bracchi. Mi viene incontro, mi batte una mano sulla spalla. Si è lavato, si è fatto la barba.— Vai laggiú, Vecio, in quelle isbe troverai la tua compagnia-. Guardo e non dico niente. Lentamente, sempre piú lentamente vado laggiú dove sono quelle isbe. Sono tre, nella prima vi sono i conducenti con sette muli, nella seconda la compagnia e nella terza un’altra compagnia. Apro la porta, nella prima stanza vi sono dei soldati che si stanno radendo e pulendo. Mi guardo attorno. – E gli altri? – dico. – Sergentmagiú! Sergentmagiú! – E arrivato anche Rigoni, – gridano. – E gli altri? – ripeto. C’è Tourn e Bodei, Antonelli e Tardivel. Visi che avevo dimenticato. – E allora è finita? – dico. Sono contenti di rivedermi e qualcosa dentro di me si muove, ma lontano come una bolla d’aria che viene dagli abissi del mare. – Vieni, – dice Antonelli. E mi accompagna nell’altra stanza dove c’è un ufficiale che era alla compagnia comando. – È lui che comanda la compagnia, – dice Antonelli. C’è anche il furiere e su un pezzo di carta annota il mio nome. – Sei il ventisettesimo,

– dice. – È stanco, Rigoni? – mi chiede il tenente. – Se vuole riposare si accomodi in qualche modo.

Mi butto sotto il tavolo che è appoggiato a una parete e sto lí rannicchiato. Tutto il giorno e tutta la notte seguente sto lí sotto ad ascoltare le voci dei miei compagni e vedere i piedi che si muovono sulla terra battuta del pavimento.

Alla mattina esco fuori e Tourn mi porta un po’ di caffè nel coperchio della gavetta. – Come va, sergentmagiú? – Oh Tourn, Vecio! Sei tu, vero? E gli altri? – dico.

– Sono qui, – dice, – vieni –. Il plotone, il nostro plotone pesante. – Dove sono? – Vieni, sergentmagiú –. Chiamo vicino a me Antonelli, Bodei e qualche altro. – Giuanin,

– chiedo, – dov’è Giuanin? – Non mi dicono niente.

«Ghe rivarem a baita?» Di nuovo domando di Giuanin.

– È morto, – mi dice Bodei. – Ecco il suo portafogli. – E gli altri? – chiedo. – Siamo in sette con te, – dice Antonelli. – In sette con te del plotone pesante. E quella recluta, – e m’indica Bosio, – ha una gamba spezzata. – E tu Tourn? Mostrami la mano, – dico. Tourn mi stende la mano aperta. – Vedi, – dice, – è guarita, vedi come la cicatrice è sana. – Se vuoi farti la barba vado a scaldarti dell’acqua, – dice Bodei. – Ma non importa, perché? – rispondo. – Puzzi, – mi dice Antonelli.

Qualcuno mi mette in mano un rasoio di sicurezza e un piccolo specchio. Guardo queste cose nelle mie mani e poi mi guardo nello specchio. E questo sarei io: Rigoni Mario di GioBatta, n. 15454 di matricola, sergente maggiore del 6¡ reggimento alpini, battaglione Vestone, cinquantacinquesima compagnia, plotone mitraglieri. Una crosta di terra sul viso, la barba come fili di paglia, i baffi sporchi di muco, gli occhi gialli, i capelli incollati sulla testa dal passamontagna, un pidocchio che cammina sul collo. Mi sorrido.

Bodei mi dà un paio di forbici, mi taglio con queste il piú della barba e poi mi lavo. L’acqua viene giú del colore della terra. Con il rasoio di sicurezza, piano, perché chissà quante barbe come la mia ha tagliato questa lametta, incomincio a radermi. Mi lascio la barba sul mento e i baffi come una volta. Poi ritorno a lavarmi e i miei compagni mi guardano come sto uscendo dal bozzolo.